Non c’è palestra, piscina, campo d’allenamento nei quali non risuoni, da sempre, l’appello al sacrificio. Questo appello non ha avuto bisogno di troppe spiegazioni fino a che l’idea che quasi ogni persona aveva di se stessa coincideva con il risultato: e non stiamo parlando solo dello sport. Anche lo spirito aziendale, anche il mondo del lavoro, anche l’intera società ragiona in funzione del risultato. O vinci, o sei nessuno.
Non è più così. Per moltitudini di ragazzi l’integrità personale viene prima del risultato (prima del lavoro, prima del reddito, prima di ogni altra cosa). Gli adulti, me compreso, hanno la tentazione di liquidare la questione come una forma quasi epidemica di renitenza alla fatica. E di iper-suscettibilità. È una tentazione da respingere.
Se adulti forse più energici, certo meno sensibili, si scontrano con ragazzi più sensibili, forse meno energici, è perché il successo non è più il solo paradigma dominante. Più del successo contano la percezione di sentirsi rispettati e la voglia di vivere bene. Significa essere viziati? Può darsi. Ma dopo una vita trascorsa a biasimare “la corsa del topo”, il corri-produci-consuma-crepa che è lo spirito del capitalismo, almeno qualche dubbio, di fronte ai “no grazie” di molti ragazzi, ci deve venire.