Quattro anni dopo, Roma. Allora non ero più uno sconosciuto, stavo lanciando bene. In squadra c’era anche Rink Babka, ancora oggi mio grande amico. Bene, in allenamento Rink e io facevamo quotidianamente lanci da record del mondo. Ricordo l’emozione di quello stadio, circondati da quelle statue bianche. Ma il giorno della finale qualcosa non funzionava. Era un giorno caldo e appiccicoso, io volevo andare in pedana e sparare subito il disco lontanissimo, ma la mano mi sudava esageratamente e tuffarla nella polvere bianca fu un errore. Insomma i primi 4 lanci furono un disastro. Fu allora che Rink, che era primo, venne e mi disse: “Guarda che stai lanciando solo con la parte alta del corpo, invece che seguire le gambe te le trascini dietro”. Una rivelazione: capito l’errore andai in pedana e al 5° lancio mandai il disco a 59.18. Era il 2° oro e grazie all’aiuto di un compagno di squadra che aveva già la medaglia in tasca. Alla fine lui era felice per me, anche perché sapeva che avrei fatto lo stesso per lui. Oggi non credo sarebbe possibile.