Il futuro dello sport (parte 2)
Come le tecniche corporee avanzate cambieranno lo sport.

Il corpo umano non è programmato per movimenti inutili

D: Vorrei approfondire un’affermazione che hai fatto in precedenza sul fatto che il corpo umano non è programmato per eseguire movimenti inutili.

R: E’ proprio così. L’essere umano può ‘pensare’ una quantità enorme di movimenti, ma quando questi non corrispondono a riflessi esistenti a livello di sistema nervoso, invece di favorire il funzionamento del corpo non fanno che intralciarlo. Gli arti tesi sono un esempio tipico di movimento ‘estraneo’. Magari non sarà bella da vedere in un contesto coreografico, ma una scimmia non si muoverà mai con due zampe tese contemporaneamente, e non vedo chi potrebbe obiettare che il suo movimento è infinitamente più efficiente di quello del migliore danzatore classico. Di questo tengono conto molte arti marziali, come pure alcune tecniche di consapevolezza corporea come il Taijiquan (Tai chi chuan) o il metodo Feldenkrais, utilissime a chi vuole migliorare le sue prestazioni sportive.

D: Che cos’ha a che fare il movimento di uno sportivo con quello di un animale?

R: Il movimento di un animale, come pure quello del corpo umano, non avviene mai su un solo asse ma è sempre spiralico, cioè su tutti e tre gli assi (verticale, orizzontale e sagittale) contemporaneamente. Se osservi una scimmia che salta da un ramo all’altro, noti immediatamente come il suo movimento non sia mai solo sagittale, ma come tutti gli spostamenti, anche minimi, del suo corpo descrivano delle spirali. Nelle tecniche convenzionali di allenamento sportivo non esiste quasi nessun movimento che preveda questa spirale, così profondamente inscritta nel nostro schema di movimento. Tutti gli esercizi vengono eseguiti su un solo piano, per esempio quello verticale per tutte le flessioni laterali, quello orizzontale per le rotazioni, quello sagittale per le flessioni e i piegamenti in avanti o all’indietro.

Quando non evochi il movimento a spirale, ciò che si verifica a livello del sistema nervoso è una frammentazione dei riflessi. E’ come tagliargli le gambe, e questo alla lunga produce dei danni. Nel bambino piccolo che da carponi passa a sedersi, questo movimento a spirale di tutto il corpo è estremamente evidente e spontaneo. Il bambino non si sognerebbe mai di alzarsi seguendo un asse sagittale. E’ un vero peccato che in tanti tipi di ginnastica, di allenamento sportivo, di addestramento militare, tutti i movimenti vengano isolati e non si sfrutti mai l’integrazione dinamica dei tre piani sui quali avviene naturalmente l’azione, finendo per determinare la prevalenza di un asse rispetto agli altri anche nel movimento spontaneo.

Tuttavia, con un lavoro specifico sul corpo, è sempre possibile restituire a un corpo la capacità di muoversi in modo efficiente, cosa che fra l’altro riporta immediatamente in contatto con il piacere del movimento.

D: Ci sono discipline sportive che tengono conto di questi aspetti?

R: In linea di massima non conta tanto la disciplina praticata ma il modo in cui la si pratica. Se nel fare sport utilizzi movimenti che frammentano (per esempio l’uso di una sola parte del corpo senza coinvolgimento delle altre o l’uso rigido di un solo piano) il risultato è una distruzione delle naturali risorse del corpo. Il risultato è quasi sempre un dolore, uno strappo, un’ernia del disco. L’atleta che si muove male, più si allena, più gareggia e più danni fa al suo corpo, lo logora. Viceversa, quanto più muovendosi usa i riflessi spontanei e movimenti naturali e completi, tanto più ringiovanisce, si integra e sta meglio anche alla fine di una gara.

Edwin Moses, per esempio, l’atleta che per quasi un decennio ha dominato la scena dei 400 m ostacoli, non solo non si è logorato ma ha migliorato via via le sue prestazioni perché ha lavorato attivamente sui riflessi e ne ha tenuto conto. Non a caso ha lavorato per molto con il metodo Feldenkrais con un mio collega americano… Ma sicuramente era un atleta che accedeva già naturalmente a questo tipo di fluidità, e infatti era un piacere vederlo correre.

D: Che cosa può interrompere questo tipo di fluidità in un atleta che vi accede naturalmente?

R: La mancanza di ascolto interiore. Il campione ‘naturale’ si fida della sensazione interna che ricava dal movimento, della ‘sensualità’ che può esserci anche nel gesto sportivo, del suo piacere fisico. E’ questo a confermargli che si sta muovendo all’interno di un riflesso spontaneo. Ogni sensazione di sforzo, di fatica, di dolore gli dice invece che sta andando nella direzione opposta. Non prestarvi attenzione significa giocare contro se stessi.

La questione di fondo rimane comunque il tipo di risultato che si vuole ottenere. Io stesso, nella mia vita sportiva ho incontrato un allenatore, recentemente scomparso, che nonostante usasse metodi che lasciavano sgomenti molti di noi, ha portato molti atleti ai massimi livelli nazionali.

Caldana, dell’Atletica Riccardi, ad esempio, all’inizio ci faceva fare allenamenti brevissimi, perché era fermamente convinto che, a lungo termine, fosse più vantaggioso fare due giri di pista con scioltezza che dieci sotto sforzo. E infatti le caratteristiche più appariscenti dei suoi atleti erano la leggerezza, la scioltezza e l’assenza di infortuni.

Relazione tra strategie di allenamento e infortuni

D: C’è una relazione, allora, tra le strategie di allenamento e la quantità di infortuni negli sport praticati a livello agonistico?

R: L’infortunio è il segnale che non c’è più un’integrazione plastica del movimento, che si è interrotta la distribuzione dello sforzo su tutto l’organismo che si attua grazie alla fascia, che è il tessuto che avvolge e connette tra loro le varie parti del corpo, dai visceri ai muscoli alle ossa. L’infortunio indica che l’integrazione funzionale dell’organismo determinata dalla fascia, l’unico sistema che si estende a ogni angolo del corpo, si è rotta in quel punto. Un’ernia del disco ci dice precisamente qual è il punto di rottura o di massimo sforzo.

L’organismo non integrato, o l’atleta che non dà importanza all’ascolto interiore, continua finchè si rompe.

L’organismo integrato distribuisce il più possibile lo sforzo, fa ogni gesto con tutto il corpo finchè non percepisce segnali di saturazione. Allora sa che deve fermarsi. Quanto più aumenta lo sforzo, tanto più il corpo tende a isolare il gesto. E un tendine staccato, una frattura, in un organismo integrato, ci segnalano un rifiuto nei confronti di ulteriori sollecitazioni. Se prendiamo, per esempio, una corsa di resistenza, all’inizio, quando la fatica è poca, il corpo continua a fare altre cose oltre a correre: pensa, digerisce, muove lo sguardo… tutte cose che non puoi più permetterti man mano che lo sforzo diventa più impegnativo. Una caratteristica tipica delle situazioni agonistiche è uno stato alterato di coscienza nel quale svanisce il pensiero, che rappresenterebbe un’interferenza. Anche la mente si scioglie a favore di ciò che in quel momento ha bisogno di energia, di attenzione. L’atleta che corre, al limite, è come se fosse solo il suo sistema circolatorio. L’apparato digerente, il sistema nervoso e tutto il resto è come se svanissero. Tutti i sistemi sollecitati dall’azione partecipano, mentre gli altri vanno ‘in ombra’ per supportare quel che succede.

D: Vorrei capire meglio in che modo la fascia distribuisce lo sforzo su tutto il corpo.

R: Il corpo umano è coordinato dal sistema nervoso tramite questo particolarissimo tessuto che si presenta come un sistema ‘continuo’. Ogni movimento può essere reso più vantaggioso o più efficiente proprio agendo su questo tessuto, che collega ogni parte del corpo e che può essere stimolato in modo da rendere il gesto il più lungo possibile (come può essere utile, per esempio, a un cestista) o il più sagittale possibile (come nel caso di uno schermidore o di un nuotatore) o meglio organizzato per lavorare alla massima velocità.

Se pensiamo alla fascia come a un telo tirato da ogni lato da molte persone, appare immediato come l’estensione totale dipenda non solo dalla persona che in un dato momento esercita la maggiore trazione ma anche da come tutti gli altri collaborano. Il giusto programma del sistema nervoso è quello che conosce il movimento ottimale di tutti coloro che stanno tendendo il tessuto in modo che il plasmarsi della fascia sia il più efficiente possibile in quel momento.

D: E in termini pratici, questo come avviene?

R: Quando, per esempio, un cestista allunga un braccio, quello che avviene nella fascia del tronco, del collo, delle spalle, del braccio, ma anche degli organi interni, del cuore, delle viscere, di un polmone rispetto all’altro è che muovendosi tutti in modo opportuno forniscono al braccio una ‘presenza’, una forza e una sensibilità che sarebbero impensabili se il braccio si muovesse invece in modo slegato dal resto del corpo o dagli organi che stanno all’interno, così spesso trascurati nella pratica atletica. Storie come quella della madre che riesce a sollevare da sola un’automobile per salvare il suo bambino che è rimasto sotto, sono possibili perché in casi eccezionali il sistema nervoso va a recuperare tutte le risorse interne disponibili, riorganizzando momentaneamente tutto il corpo sui suoi riflessi più profondi e quindi espandendosi ben oltre i limiti delle capacità di quella persona nella sua quotidianità.

Questa qualità, questo sviluppo della coordinazione ottimale tra sistema nervoso e fascia è presente nell’allenamento di molte discipline orientali. Un maestro di Taijiquan (Tai Chi Chuan) che al braccio teso in avanti riesce a tenere appesi due allievi è una rappresentazione lampante di un sistema vivente che si organizza in modo da rendere, in quel momento, il braccio come suo punto di forza. Con adeguate tecniche di lavoro sul corpo, ovviamente questa qualità può essere sviluppata e coltivata tecnicamente anche al di fuori di una pratica spirituale come lo zen o di un’emergenza come un figlio in pericolo di vita.

D: Abbiamo già parlato dei vantaggi del movimento spontaneo su quello ‘pensato’. Oggi però si parla molto di tecniche diverse dal semplice allenamento per migliorare le prestazioni sportive, dalla meditazione al biofeedback. Che ne pensi?

R: Tutte possono essere utili, purchè portino nella direzione citata. Ma la cosa che personalmente trovo più entusiasmante, oltre che vantaggiosa, è centrare la pratica di meditazione su ciò che si sta facendo. Mi spiego: se la cosa che mi interessa è correre, invece che meditare su un qualcosa di estraneo posso benissimo meditare (cioè smettere di pensare e focalizzare l’attenzione su un’unica cosa) usando come oggetto il movimento del mio bacino mentre corro, quindi entrando nel dettaglio di ogni minimo spostamento delle ossa. Questo tipo di meditazione affianca due vantaggi principali al semplice atteggiamento meditativo che, già di per sè, ha una sua utilità. Innanzi tutto un aumento della capacità di sentire ciò che avviene nel corpo, che produce un aumento della qualità e dell’efficienza globale della prestazione, poi l’ottimizzazione del movimento specifico che deriva da questo tipo particolare di attenzione.

versione italiana dell'intervista a J.Tolja della rivista svizzera per maestri di sport 'Macolin'