Una visione umanistica delle ossa
Non avrei mai pensato che si potessero avere pregiudizi anche sulle ossa.
Sensazioni di ritorno da un seminario sui fluidi.

Senza pensare, fiduciosa che il lavoro sui fluidi aiuti la scrittura.

Prima di prendere il treno, salgo sul battello, i piedi ora li sento, sono tutta nei piedi. Sono al centro dello spazio, non mi tengo, ci sono troppe persone sui lati, ma forse voglio restare nella sensazione di libertà dei fluidi.

Il mio cervello galleggia sopra i piedi ma un metro e sessanta più in alto. Sento la strada di scorrimento tra la testa e il piede destro, tra la testa e il piede sinistro. Non so se sono io a muovere la laguna o l’acqua della laguna a muovere me. La testa conserva la memoria dello scorrimento, scorrimento che in piedi sul battello è ancora più libero anche se sottile, intimo, non visibile.

Il mio tessuto connettivo ha liquido che scorre. Illuminante.

Seduta sul treno, sento continuità, i muscoli che tengono stretto il mio bacino, ora lasciano un po’ la presa. Sono un crocevia di fluidi.

Le ossa del bacino galleggiano, e sicuro se qualcuno le spremesse, potrebbero andare incontro allo stesso destino della mia tibia o radio, ulna. Ossa vive, in movimento, morbide da dentro, ora grandissime, ora sottili, pulsanti. La loro vera forma non è quella che vedo, ma quella che sento.

Se non mi fossi presa la libertà di lasciare le aspettative, le ossa sarebbero rimaste semplicemente ossa. Al di là di quello che ho sempre saputo, pensato sulle ossa, mi sono fidata dell’invito ad andare oltre, a sentire oltre.

Non credevo si potessero avere pregiudizi anche sulle ossa.

Mi appassiona questa visione umanistica dell’osso: “Guarda che mi interessa molto il tuo osso, ora lo prendo, lo tengo tra le mani, mi metto comoda, e abbandono ogni mia resistenza, ogni pregiudizio sul tuo osso, anzi non so proprio che cosa sia un osso. Chiudo gli occhi e sprofondo con piacere nel tuo osso. Il piacere di percepire l’osso vivo, da dentro”. Occorre rischiare ed essere spudorati.

Quello che mi piace in questo approccio è che, dopo un primo momento di fiducia nell’intuizione di chi facilita il seminario, fiducia nelle metafore usate per descrivere il processo, fiducia nell’immagine che prende forma nella mia testa, poi trovo la mia strada.

Se c’è sintonia con il principio, la cosa interessante è poi l’autonomia. Ciascuno, nell’umiltà della scoperta, diviene guida di se stesso.

Così tra l’inizio e la fine c’è un viaggio, senza ritorno e per una destinazione che non si conosce ancora. Ciascuno fà il suo, quello che la resa e l’abbandono sincero rendono possibile.

Patrizia Belardi

P.s. Bollettino del giorno dopo.

Quando vado via un weekend solitamente al ritorno il senso di colpa incombe, tutte le madri del mio albero genealogico si incarnano in me e l’imperativo è: rimettere tutto com’era prima che il fulcro della casa abbandonasse il suo regno. Controllare che tutto e tutti ritornino a posto, insomma una gran fatica, un prezzo troppo caro da pagare per un po’ di felicità.

Oggi per la prima volta non è così. Accetto tutto, ho lo sguardo aperto, sto veramente bene, sono calma, sono imperfetta, la casa va bene, gli abitanti vanno bene. Mio marito dice che ho il viso più importante, più pieno, e sento i bimbi affondare in un placido espiro.