Terapia esperienziale
Uno specialista racconta come l'educazione somatica sta cambiando il rapporto con la propria professione.

In passato quando ho avuto qualche “successo terapeutico” sono stato portato ad attribuirlo se non alla mia bravura quanto meno al mio impegno costante, all’aggiornamento continuo, alla voglia di “migliorarmi” che credevo mi contraddistinguesse rispetto agli altri.

In realtà, in qualche misura, sono sempre rimasto vuoto, insoddisfatto anche di fronte ai presunti “successi”.

Allorché ritenevo di aver raggiunto buoni livelli di conoscenza e perizia di nuovo mi trovavo di fronte a montagne sempre più immani e ripide da scalare.

Dietro l’ansia di migliorarsi stava probabilmente il fatto che non mi sentivo mai adeguato, in fondo, al personaggio che recitavo, al bravo professionista gentile serio e disponibile di cui curavo l’immagine e di cui, al tempo stesso, ero prigioniero.

Con l’educazione somatica credo di aver semplicemente capito che non c’è nessuna necessità di “migliorarsi”, non c’è alcun confronto da sostenere e perciò nessuna professione di (falsa) modestia da recitare.

Ciononostante rimane comunque bello ed estremamente stimolante accettare le sfide terapeutiche difficili.

Accettarle davvero è una reale professione di umiltà e coraggio perché equivale ad accettare e condividere con il paziente il rischio di insuccesso, ma affrontarle con umiltà è anche la strada per il successo.

In realtà avverto che non c’è differenza di approccio tra “l’anatomia esperienziale” dei seminari e la “terapia esperienziale” che sto facendo coi miei ultimi “pazienti” (non vorrei chiamarli così ma al momento non mi viene nessun altro termine): il rapporto è paritario (proprio come con il partner nei seminari) eccetto il fatto che attraverso le mie conoscenze posso creare metafore utili per descrivere il processo che sta accadendo.

Ho assaporato queste sensazioni con la paziente che ho trattato oggi: una signora sulla sessantina, diabetica venuta a visita per una spalla dolorosa inveterata.

Dolorose davvero sono spesso le spalle dei diabetici, non danno tregua al paziente, difficili da guarire con le terapie ordinarie, spesso sottoposte a manovre invasive che peggiorano i sintomi e la situazione clinica.

Insomma in genere poca soddisfazione per medico e paziente e spesso la sconfitta terapeutica con il ricorso a massicce dosi di anti infiammatori ed antidolorifici.

Avevo già visitato la signora quest’estate prescrivendole un ciclo di terapie ordinarie senza ottenere alcun successo.

L’ho rivista volentieri, è educata, non invasiva, sorridente nonostante la visibile sofferenza, in qualche modo fiduciosa visto che mi ha cercato di nuovo.

Guardandola negli occhi le ho detto: “signora non ho veramente idea da dove cominciare con la sua spalla!!” Abbiamo riso insieme poi ho aggiunto: “forse questo è il miglior inizio possibile!”

Mi sono affidato ancora una volta al principio del piacere, all’idea di riscoprire assieme alla signora le sensazioni piacevoli che potevano venire dalle articolazioni del suo arto superiore…

Abbiamo rincorso queste sensazioni con semplicità, umiltà, alla ricerca delle più fini sensazioni derivanti dallo scorrere reciproco dei giunti articolari delle mani, del polso….

Alla fine anche la articolazione glenoomerale ha iniziato a muoversi a scorrere, il corpo prendeva il sopravvento, la spalla cercava da sola i suoi angoli, le linee di forza, la velocità di scorrimento…..

Sono stato circa due ore a lavorare fianco a fianco con la signora di cui forse solo cinque minuti (benché estremamente intensi) sulla spalla.

Non c’è da stupirsi a questo punto se a fine seduta il miglioramento clinico risultava eclatante: la mano prima fredda e priva di forza aveva riacquistato vigore e calore, il range articolare della spalla migliorato in misura inimmaginabile.

Ho lasciato la signora da sola a giocare col suo braccio e le ho detto di continuare a farlo a suo piacimento per quindici giorni allorché ci rivedremo. Era stato tutto molto semplice, umile, vero.

Sentivo di aver passato una bella mattinata, ero molto contento, pervaso da una soddisfazione piena e consapevole come, confesso, non mi era mai successo prima di avere.

E ciò che è stato ancora più bello e nuovo per me è stato che allo stesso tempo ho sentito che avrei potuto anche fare a meno di tutto: del camice, della terapia, della paziente. Anche se fossi andato a fare una passeggiata nel bosco o un giro in canoa con questa attitudine sarei stato bene ugualmente.

Fabio Passafiume
(medico, specialista della riabilitazione)