La rivincita del buon senso
Se l'ansia ci parla.
Non sta mai zitto. I suoi numerosi avversari lo accusano di pronunciare geremiadi contro il sistema. La mia, lui risponde, è solo la rivolta del senso comune. La sua rivolta l’ha fatta diventare un libro (Commonsense rebellion, pubblicato da Continuum International Pubb Group).

Slogan: non vergognatevi di essere ansiosi : è l’ansia è la vostra anima che vi parla. Bruce E. Levine è uno psicoterapeuta americano. Fa parte dell’International Center for the study of Psychiatry and Psychology, un’associazione che si batte contro l’accanimento medico e psichiatrico nei confronti dei disturbi mentali. Gli piace snocciolare cifre. Dunque: il 16% degli americani convive con l’ansia.

Diciassette milioni di americani soffrono di disturbi dell’attenzione e il farmaco comunemente impiegato per combatterli, il Ritalin (è un’anfetamina), ha aumentato le sue vendite dell’800% in una dozzina d’anni. Il 25% degli americani usa psicofarmaci. Ancora? Ottanta milioni di americani soffrono di disturbi alimentari e il tasso di suicidio, tra gli adolescenti, è quadruplicato dal 1950 ad oggi.

La conclusione di Levine è netta:”A volte quella che sembra un’epidemia di disturbi mentali è soltanto il segnale di una rivolta latente”. L’idea che la malattia sia il segnale di “una risposta a una società sempre più impersonale e coercitiva”, per usare ancora le parole di Levine, appare interessante. Eppure le cifre sono tali da non consentire di distogliervi facilmente lo sguardo.

Il Censis, il nostro più autorevole osservatorio sociale, ha recentemente elaborato un dossier sulle “Nuove malattie del benessere”. Se ne ricava che gli italiani che soffrono di depressione sono 4 milioni. Di disturbi alimentari, 6 milioni. I disturbi della sfera sessuale coinvolgono poco meno di 19 milioni di persone. Le allergie (cui viene riconosciuta una forte componente psicologica) circa 4 milioni di individui. Secondo la rivista Riza psicosomatica, due milioni di italiani soffrono abitualmente di attacchi di panico e l’ansia tocca la medesima percentuale che negli Usa. Distogliere lo sguardo dalle cifre è difficile perché queste sembrano disegnare il quadro di una società colpita dal disagio di massa di fronte a un insostenibile benessere.

Gadi Schoenhieit è un sociologo milanese, dirige l’Intermatrix e si occupa molto dei problemi legati alla salute. Sulle cifre che circolano avrebbe anche qualcosa da dire. Ma su una cosa non ha dubbi :”La nostra società è percorsa da una richiesta molto forte: cerchiamo una qualità costante di salute. Di fronte al degrado ambientale e sociale io voglio continuare a stare bene lo stesso. Io voglio che mi venga garantita la salute. E se non trovo niente o nessuno che mi offra questa garanzia, dentro di me si crea un cortocircuito e mi ammalo. Mi ammalo anche se sto bene. Entro in depressione”.

Gadi Schoenhieit sostiene che questa nostra fragilità deriva dal fatto che sono sempre più rari i paletti a cui aggrapparci. “Viviamo nella sensazione che tutto sia destinato a peggiorare e che a questo scivolare verso il basso non ci sia alternativa, né in noi né fuori di noi. Il paradosso ha radici proprio nel fatto che la storia non ha mai conosciuto un’epoca di benessere e di cultura così diffusi. La cultura mette in crisi i vecchi modelli politici e religiosi e il benessere ci fa a vivere più a lungo. Insomma, viviamo di più e con maggiore consapevolezza della sofferenza”. Il meglio, conclude Schoenhieit, ha generato il peggio del peggio. La malattia, per riprendere ancora le parole di Levine, non è più generata da un microbo e diventa il fantasma di una ribellione “senza saggezza e autodistruttiva”.

Troppo cibo e troppa cultura. Questo ci fa ammalare? Lo psichiatra Raffaele Morelli, sostiene che apparteniamo a una cultura al tramonto.” Lo si vede dall’enfasi che poniamo sull’apparenza. Enfatizziamo il ruolo della famiglia, per esempio. Ma se andiamo al di là dell’apparenza, appunto, scopriamo che il 72% degli italiani, quando è riunito in sala da pranzo, sa parlare solo di soldi”. La cultura dell’apparenza, sostiene, annulla uno dei più importanti ingredienti della salute, che è la capacità di stare in silenzio e di ascoltare se stessi.

“Temiamo il silenzio più di ogni altra cosa. Le statistiche dicono che un single, quando torna a casa, la prima cosa che fa, nel 75% dei casi, è aggrapparsi al telefono per parlare con qualcuno. Così non siamo più capaci di ascoltare il linguaggio della malattia, la consideriamo una parola negativa. Siamo incapaci di vedere che l’insonnia è spesso espressione di energie che non abbiamo speso e che l’ansia è la pressione della vita che è dentro di noi, che semplicemente vuole uscire e affermarsi. Siamo incapaci di vedere che il nostro cervello ha le stesse funzioni dell’intestino al quale, non a caso, assomiglia: assorbe ed espelle in continuazione. Quando tutto diventa troppo, assorbiamo troppi stimoli e non siamo più in grado di liberarcene”.

Mark Dery, un critico americano dallo stile graffiante, ha scritto nel suo libro Velocità di Fuga (Feltrinelli) che «L’ossessione per il corpo tradisce una diffusa incertezza per il suo destino ». E’ una frase che sembra indicare la strada verso la liberazione dal male. Ne è convinto Roberto Marchesini, un giovane professore di bioetica che ha appena pubblicato un gigantesco saggio che si intitola Post-Human, verso nuovi modelli di esistenza (Bollati Boringhieri).

Anche Roberto Marchesini sostiene che molte delle nostre malattie sono il segno di una rivolta. E’ la rivolta del corpo che non si assoggetta al silenzio che gli viene imposto. La tecnologia, sostiene, ci ha insegnato a considerarlo una semplice macchina. Come una macchina, dunque, si dovrebbe poter accendere e spegnere: quando andiamo a letto e non ci addormentiamo immediatamente, usiamo i farmaci al posto del bottone on-off che non possediamo. “Come una macchina, vorremmo che il nostro corpo possedesse una struttura modulare.

Qualcosa si rompe? Lo gettiamo e mettiamo un pezzo nuovo, dimenticando che nel corpo, a differenza che in una macchina, tutto è interconnesso. Trattiamo il corpo come una macchina. Lo consideriamo come un supporto materiale e meccanico che ci consente di spostarci o di aprire un cancello e dunque non ci vuole niente a sostituire il corpo con un’automobile o con un cancello automatico. Ma questo pensiero poggia su un gigantesco equivoco. Quello, appunto, secondo il quale il corpo è solo un grossolano supporto meccanico. Consideriamo la mente come la parte nobile dell’uomo e il suo corpo come la parte animale e materiale. L’equivoco sta proprio in questo dualismo perché, in realtà, non c’è un punto in cui finisce il corpo e inizia la mente. Tutte le nostre capacità cognitive e razionali sono totalmente radicate nel nostro corpo. La nostra cultura tecnologica, al contrario, ci porta a considerare il corpo come qualcosa di volgare. Il corpo comincia a disgustare troppe persone.

Persone che hanno paura degli animali. Hanno una visione esasperata dell’igiene, fanno sempre più spesso incubi popolati da bestie, insetti e larve o arrivano a considerare perfino il cibo come qualcosa di sporco e disgustoso. L’educazione, del resto, ci ha insegnato che le grandi funzioni organiche devono essere celate e represse, per cui si fa sempre più strada l’idea che il corpo sia sporco, la sede dell’irrazionale, di tutto ciò che ci accumuna agli animali”. Scontiamo, sostiene Marchesini, secoli di cultura umanistica che ha impiegato secoli di storia a sezionare la realtà e a suddividerla gerarchicamente in cose alte e nobili e cose basse e sporche.

Si tratta di un argomento talmente cruciale che il medico psicosomatista Jader Tolja per evitare questa falsa dicotomia preferisce parlare di pensiero del corpo. Prima di tutto, dunque: ridiventare consapevoli delle funzioni psicologiche del corpo. “Per capire meglio come funziona il meccanismo della salute e della malattia, immaginiamo uno sportivo che si allena in un paese come poteva essere la Russia sovietica, priva di tutte le super stimolazioni a cui noi occidentali siamo soggetti. Il nostro Ivan si allena intensamente per un anno e per un anno sembra che non accada nulla. Poi, quasi all’improvviso, supera se stesso e i record mondiali.

C’è insomma una lunga fase di accumulo che, a prima vista, sembra uno spazio del tutto vuoto e inutile. Ma è uno spazio che, se non esistesse, non ti consentirebbe di diventare un campione. Bene. La società in cui viviamo riempie all’inverosimile questo spazio apparentemente vuoto. Lo riempie di feste, di musiche, di film, di consumo, di cibo, di giochi, lo riempie di viaggi da fare in ogni periodo dell’anno. E’ come se fossimo costretti a vivere perennemente ad una festa, tra canti e balli, senza mai la possibilità di staccare, di tornare a casa e stare un po’ in pace. Questo squilibrio finisce col creare inevitabilmente un disagio mentale. Entriamo in depressione. Con una avvertenza: che la depressione si camuffa, si adatta al carattere degli individui. Se hai un tipo di carattere ti metti a mangiare in continuazione. Se sei più portato all’azione, lavori in continuazione o fai sport in continuazione e via dicendo” .

E’ diffusa l’idea, insomma, che il disagio del nostro corpo non è altro che la manifestazione di una crisi . La crisi di una cultura, prima ancora che di una società. Il che non è detto che ci aiuti a risolvere le faccende in modo più sbrigativo. Jader Tolja, a questo proposito, fa una osservazione: ”La cultura viene fatta prevalentemente da chi ha i mezzi per poterla fare. Una volta la facevano i Medici e i Gonzaga. Oggi la fanno le multinazionali. Il che può andare anche bene, tranne che per un piccolo particolare: la cultura si trova al centro di un enorme e generalizzato conflitto di interessi. Basti pensare che la cultura alimentare all’atto pratico viene fatta dalle multinazionali del settore e che la cultura medica è fatta dalle grandi case farmaceutiche, le uniche in grado, tra l’altro, di finanziare la sempre più costosa ricerca scientifica”. Bruce E. Levine al proposito propone un’ipotesi interessante: ”I biologi ci avvertono che per salvare le specie in estinzione occorre modificare il loro ecosistema. Non sarà che noi stiamo distruggendo ogni forma di sistema socioculturale adatto a soggetti sani?”.

C. Castellani
dalla rivista D di Repubblica