Nella Metamorfosi, il capolavoro di Franz Kafka, il protagonista, Gregor Samsa, si sveglia una mattina e scopre di essersi trasformato in un gigantesco insetto. È l’illustrazione, fra le altre cose, del rapporto di Kafka con la sua famiglia, mostra una fuga immaginaria dalla sua impasse personale. Kafka pensava all’emergenza della sua vita. Non riusciva a parlarne e non riusciva a non parlarne. Non riusciva nemmeno a cambiare la sua vita: era troppo masochista per riuscirci.
Semplicemente scriveva. Essere realmente trasgressivi è una delle cose più difficili che ci siano. Ma l’editor interno di Kafka lo rendeva inventivo: la sua crisi provocò una metafora e lui scrisse una storia, trasferendo la malattia nel lettore perché cambiasse le nostre vite. Kafka trovò un bellissimo compromesso, almeno dal punto di vista della storia della letteratura.
Romantici come William Wordsworth e Samuel Taylor Coleridge sapevano che l’immaginazione era pericolosa come la dinamite, non solo politicamente – il popolino poteva avere idee nuove e importanti, ma dissidenti – ma anche all’interno di un individuo. L’immaginazione può avere le sembianze di una malattia, ma in realtà è un’illuminazione. Non c’è alcun dubbio che l’immaginazione sia un pericolo, e così dev’essere: certi pensieri sono infiammabili e devono essere repressi o preclusi. Il bene e il male, come in un brutto film, devono essere tenuti ben distinti.
Ci sono concetti che non possono essere pienamente concepiti o pensati, che non devono saldarsi o svilupparsi. Questo perché l’immaginazione può essere antisociale. Platone voleva bandire l’arte dal suo Stato ideale perché era falsa, «un’imitazione», come diceva lui, e poteva sovreccitare il popolino. E sappiamo, naturalmente, che scrittori e artisti nel corso della storia sono stati attaccati, censurati e incarcerati perché avevano pensieri o idee che altre persone non potevano tollerare di sentire. Da questo punto di vista, la parola è sempre pericolosa. E così dev’essere.