Elogio dell'influenza
Gli Aborigeni sono
per gli standard contemporanei materialmente poveri,
ma nella dimensione del tempo
dobbiamo considerarli più ricchi di noi.
J. Hobday
L'influenza come privilegio a rischio.
Con esecrabile efficienza, un’affascinante fanciulla decanta nello spot televisivo le mirabilie di una nuova pillola antinfluenzale, elencando terroristicamente le conseguenze di una settimana di malattia: affari persi, cene svanite, occasioni rinunciate. Quando invece di tutti i mali che avvicinano gli umani alla unica certezza della vita, la morte, l’influenza è il più confortevole. Dona ai medici una scusa per dare un nome tranquillizzante a tutte le malattie che non sanno; ai malati il privilegio d’essere malati, senza preoccuparsene soverchiamente.

Male non grave, anzi elegante persino nel nome che sta per scorrimento e flusso in latino medievale, l’influenza avvolge in un malessere acqueo e rigonfio, caldiccio sì ma che non dura e che poi non nuoce mai molto al corpo. E invece dona ai sentimenti il ritorno all’impotenza infantile prima e poi alla quiete inconcludente, che altro non deve fare se non perdere finalmente tempo.

Un po’ di reumatismi o mal di testa sono il minimo prezzo per ridivenire petulanti, infantili, infine rassegnati, quieti, del tutto ineconomici, in nulla vitalisti. In un’epoca economica per definizione, e in cui la ginnastica, e l’economizzazione di ogni felicità, il non avere pace, diverranno tra poco norme costituzionali, in questa epoca sciagurata l’influenza è ormai l’unico serio anticapitalismo che ci è rimasto.

Ovvio dunque che la torma di ignoranti, educatisi al vizio del lavoro, l’avversi, e poi una diseducativa réclame televisiva, elenchi le cose tutte sciocche, e trite che possono farsi, se soltanto con una pillola si evita l’influenza. E i più, tanto pervertiti da considerare ormai norma di salute un pensiero sovraeccitato, sempre ansioso e che genera fretta, magari ci credono pure, giudicando sensato il pregiudizio.

In anni degeneri in cui il lavoro è diventato un mezzo, che non sa più il suo fine, e viene chiamato svago un nugolo di piaceri reiterati a comando e quasi sempre peggiori di un lavoro, ora si calunnia l’influenza, unico stato in cui l’umano non nuoce a se stesso, perché grazie al cielo, non può ricercare il progresso. E deve invece preoccuparsi o meglio abbandonarsi ad un totale risanante regresso. Quindi sperimentare che inaudito privilegio siano quei due o tre giorni di attutimento; se solo non si abbia la fretta di guarire, e invece si ceda alla quiete di un esistere finalmente né vitale, né economico, né progressivo.

Per chi non soffra già, per vecchiaia, o altro male, non dovrebbe dirsi un male ma appunto influenza, e stato da elogiarsi. Come deve e può solo approvarsi l’esistere riparati, ovattati, e il bere tè bollente, il rimirare i gatti che in acrobazia saltano sopra il letto, il privilegio di non dover rispondere a tono, il poter giocare i giochi dei bambini, il disco che gira, la pancia calda, le coperte, l’eccitazione dell’aranciata, e quel libro che si rilegge sempre da capo, i peluzzi della sciarpa sotto la lingua, gli spaghetti aglio olio e peperoncino che disinfettano, la quiete ineconomica, il guardare immobili, e infine la propria menzogna: quel giorno finale in cui s’è già guariti e non lo si ammette, e ci si sente adatti nella vita solo a non fare niente.

G. Alvi
da La Repubblica