È lo stesso aspetto che mi ha reso così caro, così amato The Truman Show, al quale Barbie, secondo me, è per non pochi versi apparentabile. Questo aspetto è la fuga dalla finzione, dalla maniera prevista, dal ruolo assegnato. È prendere coscienza che ti è stata imposta una parte in commedia e che quella parte è una galera dalla quale devi evadere. Quando Truman, a bordo della sua barchetta, va a sbattere contro il finto cielo con finte nuvole che è stato la sua galera dorata, e trova l’avventuroso varco per sortirne (a piedi), e infine saluta lo spettabile pubblico e se ne va verso il mondo reale, al cinema ho pianto come un bambino (come si piange al cinema, non si piange da nessuna parte). E avevo gli occhi umidi anche quando Barbie, tenendo per mano la sua anziana creatrice e potendo vedere, per mezzo di lei, squarci della vita reale, ovvero dell’imperfezione dolorosa e gioiosa nella quale tutti viviamo, decide di abbandonare il felice (e finto) status di bambola. Mi è sembrato di rivedere, in altre forme, il lieto fine di The Truman Show: ovvero la fine dello show e della finzione, l’inizio della vita.