Può essere che l’amore, quello fisico intendo, sia la reiterazione sconfitta di ricomporre quel corpo a corpo, quell’essere nel corpo dell’altro come memoria di un’antica beatitudine che non ritorna: la nostalgia di quello che Freud chiama “sentimento oceanico”. Ma la vita avanza e cresce a colpi di distacco. Distacco dal mondo genitoriale, dal mondo dei figli che si sono generati, dagli amori che abbiamo frainteso, quasi che la vita volesse allenarci a quell’ultimo distacco che è quello spasmodico amore di noi da cui, con la morte, ci congediamo.
Questa è la nostra sorte di “individui”, dove il senso della divisione, della separazione, del distacco è già nella parola, per cui l’uomo, come ci ricorda Platone, è “simbolo” di un uomo, è “parte” che cerca l’altra parte per ricomporre l’antica unità. Con Platone penso che tutte le tensioni amorose siano il tentativo sconfitto di ricomporre questa unità originaria che ci è concessa per brevi istanti, sconvolgenti nel loro spasmo, affinché l’individuo possa consolare la sua radicale solitudine, che è poi la sorte che gli è stata assegnata per la sua individuazione. “Diventa ciò che sei” diceva Nietzsche. È bene che i giovani sappiano che l’individuazione, propiziata dal distacco, è l’unico destino degno della nostra vita.