Un po’ come quando vedi un film con Gian Maria Volontè che, fra il sostantivo e l’aggettivo, si ferma, prende la pausa che serve a scegliere quello giusto, lo cerca. E di certo invece l’aggettivo era scritto nel copione, e lui il copione lo sapeva memoria. Però era un attore gigantesco e lo conosceva, il segreto più grande. Tra la finzione e la verità c’è questo, di diverso: il tempo del pensiero.
Il battito di ciglia – la pausa, in musica: un ottavo di battuta – che serve a riportare a te quello che si aspettano che tu dica, farlo transitare nel corpo, porgerlo come se ti fosse venuto in mente in quell’istante.
Quindi in generale, pensavo: è questo il furto maggiore della velocità di reazione a cui il tempo presente – il tempo del talk show, di Twitter – ci condanna. La brevità a effetto. Avere una battuta pronta subito, 16 secondi al massimo. Nessuna esitazione, niente pause. Rispondere a tono possibilmente con un gioco di parole. Applausi, oppure fischi, è lo stesso. È il ritmo dello show. Ma è nel silenzio che abita il pensiero, invece: senza silenzio ogni parola è solo repertorio. Pensieri già pensati – rubati, copiati o archiviati – pronti per essere usati. Niente che accada davvero mentre accade: niente di interessante. Niente di nuovo.