Il nostro terrapiattista interiore
Riflessioni sul perché ci va bene credere a ciò che vogliamo credere.
È un buon momento per i terrapiattisti, che oramai si sono ritagliati un posticino quasi stabile nelle cronache dopo anni di faticosa gavetta.

Si dice che sia, questa piccola consorteria di negazionisti della geometria solida (negano la sfera, ammettono il cerchio: chissà se vedono se stessi tri o bidimensionali), uno dei frutti bacati del web.

Ma la fola stupefacente, la credenza insensata, precedono di molto i social. Ai quali, anzi, ci toccherà presto essere grati, perché, alla lunga, portando in superficie tutta l’abissale ottusità di cui sono capaci gli uomini e le donne, cazzata per cazzata, costringeranno l’umanità nel suo complesso ad abbassare la cresta: abbiamo Einstein, abbiamo Picasso, abbiamo Madame Curie ma abbiamo anche i terrapiattisti, e per giunta, anche se manca un apposito Albo, sono certamente in numero superiore a quello dei geni.

Ma perché – viene da chiedersi – ci si mette nelle condizioni di negare l’evidenza anche quando essa sia testata e ritestata scientificamente, empiricamente, per il lungo e per il largo, per il quadrato e per il tondo? La risposta è semplice: perché se a uno non gli va che la Terra sia rotonda, gli basterà pensarla piatta, per sua comodità, e subito si sentirà contento.

Non è dunque sapere le cose, ciò che conta: è sentirsi contenti. E questo ci fa riflettere su un punto dolente anche per noi terratondisti. Quante volte abbiamo preferito credere una cosa non perché era vera, ma perché ci faceva sentire meglio? In sostanza: ognuno tema il terrapiattista che è in sé.

Michele Serra
da La Repubblica