Non meditiamo mai abbastanza a lungo sulla comicità involontaria del gesto del ganassa.
Ganassa è la parola tutta milanese che definisce gli sbruffoni, quelli che la fanno grossa per mettersi in mostra. Ganassa, che poi è la ganascia, la mandibola prominente di quelli che cercano attenzione, che fendono l’aria con la pretesa di venire celebrati. Il gesto del ganassa diventa poi un enorme fardello quando fallisce e costa caro all’incauto autore, un contrappasso veloce e impietoso, spesso pubblico quanto il ludibrio che lo accompagna e segue il fallimento.
Pugili che ballano e irridono l’avversario, che prestano il fianco e abbassano la guardia per mostrare poca considerazione e contestualmente finiscono in terra tramortiti. Motociclisti che esultano prima del traguardo e si fanno bruciare sulla linea da avversari più concentrati. Mezzofondisti che alzano le braccia troppo presto e non si rendono conto del pericolo imminente. Il ganassa è ovunque perché i ganassa siamo noi, tutti noi che a volte non ci accontentiamo di vincere e cerchiamo di strafare, cercando il consenso di compagni, avversari e pubblico.
Gli unici a cui si concede di essere recidivi sono i fuoriclasse, perché nel loro caso il gesto irridente e umiliante per l’avversario è solo una parte del disegno celeste, della bellezza del Gioco. Ma non sono ganassa. Del gol di Maradona all’Inghilterra (non la mano de Dios, quell’altro, quello in cui mette a sedere tutta la squadra inglese, allenatori e dirigenti compresi) non diremmo mai che è un gesto da ganassa, eppure siamo consapevoli che avrebbe potuto passare o scaricare la palla almeno una decina di volte perché aveva due compagni che gli correvano accanto e gli ultimi due dribbling non erano necessari.
Ma il divino non è mai necessario, non è la sua categoria. Il ganassa non è mai divino, anzi, è la cosa più pagana e superficiale che esista. Mentre lui protende la mascella, noi ci prepariamo a ridere di gusto.