A ogni gravidanza ho sognato una bambina, non solo per un narcisistico desiderio di replicare una me stessa in versione 2.0, rivisitata, corretta e perfezionata. Volevo una figlia per affrontare la sfida di crescere una donna, per inventare per lei e con lei strumenti nuovi per conquistare l’universo, per vederla sbocciare grande e forte, per regalarle spalle più larghe delle mie, per insegnarle ad accomodarsi nel mondo rimanendo se stessa e per guardarla lanciarsi da quel trampolino con la certezza di poter volare alto e atterrare ovunque desiderasse. Volevo crescere una donna per dimostrare a me stessa, a lei e a tutte le altre che possiamo sognarci onnipotenti ed esserlo sul serio. Volevo una figlia femmina per la mia megalomania di genere.
Evidentemente ho avuto maschi perché madre natura, che vede e provvede, ha voluto risparmiare a quella creatura innocente il tormento delle mie ambizioni ipertrofiche e femministe. Ma non mi sento “poverina” né vittima di un accanimento del destino, né soffocata dalla supremazia del testosterone che satura l’ambiente in cui abito.
Perché trasformare maschi in uomini è un compito fondamentale e arduo, ma anche una responsabilità alta e nobile, civile oltre che materna, un’impresa elettrizzante.
Perché lasciare alla società, dopo di noi, uomini per bene, richiede pazienza, accoglienza, un uso impudico delle parole e della tenerezza, un modello di relazioni rispettose e sane, la scelta difficile del giusto padre e la pratica, sfiancante, esemplare e continua, della quotidianità come la vorremmo.
Confrontarsi con chi è diverso da sé comporta vestire panni altrui, imparare altri istinti e insegnare la propria lingua a chi non la possiede.