Beninteso non si tratta di una semplice riproduzione fotografica e nemmeno di una rappresentazione sensibile, materializzata, come quella che suscita ad esempio il tatto quando palpiamo qualcosa. Si chiama immagine del corpo la percezione che abbiamo di noi. È, per l’esattezza, il «concetto integrato» che ciascuno di fa di sé e che nella maggior parte dei casi è molto diverso da un’immagine obiettiva.
Possiamo considerare l’immagine del corpo come conseguenza del linguaggio. Il nostro corpo è sottoposto ad un insieme di pressioni sonore che lo eccitano su tutta la superficie. Il fatto di vivere nel suono, e specificatamente nel suono prodotto dal linguaggio, imprime per sempre una quantità di piccoli segni sul sistema nervoso periferico. A seconda delle parole impiegate, del timbro generato, sarà più o meno sollecitata questa o quella parte del corpo.
Infatti la «colata verbale» si espande su tutte le superfici privilegiate: il viso, le parti anteriori del torace e del ventre, il dorso della mano destra al livello della piega pollice-indice e l’interno delle membra inferiori, soprattutto il ginocchio e la pianta dei piedi.
Il linguaggio poco per volta sensibilizza le zone sensoriali individuatrici delle onde acustiche. Le zone più adatte a ricevere questo tipo di informazione si trovano evidentemente là dove la distribuzione delle fibre nervose specializzate nella misurazione delle pressioni è più fitta. D’altra parte non vi è alcun dubbio che proprio per offrire la maggior superficie possibile delle zone prescelte la verticalità è d’obbligo quando si vuole controllare la parola.
Così, a seconda che siamo intellettuali o calciatori, la nostra voce non va a toccare le stesse parti del nostro corpo. Quando un corridore ciclista dice che farà meglio la volta successiva, ha una voce sorda, povera di sibilanti. È perché parla alla parte che è il fulcro delle sue attività: le gambe. Ci vuole una voce grave per toccare la parte inferiore del corpo. La voce di un benedettino non ha nulla in comune con quella di un carrettiere. L’ideale sarebbe permettere alla voce di raggiungere tutte le superfici corporee, e questo del resto è l’obiettivo che alcune ascesi si prefiggono.
Gli yogin tibetani cercano di ottenere un suono capace di imprimersi sulla totalità del corpo. La loro voce cambia, perché tocca il corpo sia attraverso la periferia che attraverso la struttura ossea. Emettere un suono consiste infatti nel far vibrare l’aria esterna grazie ad una vibrazione che fa cantare tutto il corpo. Questo diventato una sorta di strumento, comincia a vibrare grazie alla laringe che si appoggia alla colonna cervicale. È questa che canta e che mette il corpo in risonanza. Il «vero» suono scaturisce da tutto il corpo e non solo dalla bocca. Platone diceva che cantare o parlare, era mettere all’unisono l’aria che è all’interno e quella che è all’esterno.
Se accettiamo l’idea che l’immagine del corpo è la conseguenza del linguaggio, possiamo sperare di rimodellare il corpo migliorando la parola. Ed effettivamente è possibile modificare la struttura del corpo di un individuo modificandone e procurandogli, come reazione, una diversa percezione uditiva del mondo che lo circonda. Prendiamo un italiano della regione di Napoli, un inglese filiforme, un tedesco largo e tozzo e trasportiamoli negli Stati Uniti: dopo un po’ di tempo avranno acquistato una morfologia identica. Cambiando lingua, cambiano viso… È il suono che è responsabile di questa mutazione, il suono li ha rimodellati.