Come esempio si possono citare due episodi, uno dell’infanzia e uno della vita adulta, che descrive in prima persona. L’episodio dell’infanzia si riferisce ad un’occasione in cui la madre vuole che indossi un vestito di “lunghezza decente”: “Mi sento schiacciata, immiserita… Mi vuol costringere e chiudere nell’influenza degli abiti, impedirmi tutto un modo di fare e perfino di essere… Dentro a quegli abiti assumo delle arie da ragazzina per bene, innocente e brava; devo essere una ragazzina per bene, innocente e brava da sentirne tutto il peso.” Ciò che colpisce è la dolorosa consapevolezza di come l’abito possa essere uno strumento di repressione, di rimozione della sua vera natura, di manipolazione del suo essere, affinchè diventi quello che la società con la sua cultura si aspetta da lei: “Io, non sono io nei miei vestiti, nei miei atteggiamenti, non sono per niente contenta di me, una fanciulla così antipatica mi sento, con quel lavoro all’uncinetto sempre in mano per far contenta la mamma, per la gioia del papà, dei fratelli, della zia, dello zio…”
Anche nell’episodio di vita adulta, con Lawrence si descrive questo difficile incontro tra sensazioni interne ed aspettative esterne. L’uncinetto, ancora protagonista anche se da simbolo dell’aspettativa esterna, è nel frattempo diventato forma di meditazione e simbolo del suo essere più autentico: “Mi demolisce. Proprio perché sono tutta presa in questo umile lavoro manuale. Crede di sorprendermi nel mio vero essere, poca cosa che me ne so stare così intenta e attenta come se niente altro esistesse per me che quella meccanicità…” e rincara “Dice che proprio non tendo a nulla, che non ho una meta come qualche volta si è portati a credere, che lui non si lascia ingannare da quelle mie mani che si muovono come due esseri spirituali…” e conclude con l’umorismo che la caratterizza: “D’improvviso mi viene un’idea, così, tanto per provarmi cambio l’espressione del viso, mi fingo assorta in alti pensieri, e continuo a lavorare con aria distratta… Lawrence colto di sorpresa nella sua ingenuità, ne è disorientato. E’ imbarazzato… Come può di punto in bianco dar a vedere di aver cambiato opinione… Confessare che si è sbagliato?”
Ciò che emerge chiaramente anche in questo divertente siparietto con Lawrence è l’estrema chiarezza su ciò che è forma e ciò che è contenuto. Chiarezza peraltro già presente durante l’infanzia in cui: “…i miei veri pensieri li avvolgevo in un secondo strato di pensieri visibili…” Così come è anche palese la capacità di giocare con questi due aspetti: “Nella fanciullezza io mi sentivo avvolta in una continua, sottile prigionia; per evadere solo le vie indirette avevano dell’efficacia. A queste mi affidavo diventando abilissima.” Da dove deriva questa capacità di distinguere tra i due aspetti? La forma è tipicamente legata alla percezione visiva, mentre la capacità di sentire il contenuto è legata alla fisicità, alla sensualità, alla capacità propriocettiva, cioè quella di percepire il proprio corpo dall’interno. Per esempio una persona prevalentemente visiva dice: “Mi fa piacere vederti bene…”, una propriocettiva dirà invece “Mi fa piacere sentirti bene”. E non ci sono dubbi che la Pittoni avesse molto forti entrambi gli aspetti. Se pensiamo ad esempio all’aspetto propriocettivo, in un editoriale dal titolo Il senso della materia e che non lascia molti dubbi in proposito afferma: “Dobbiamo praticamente studiare le tecniche antiche…i congegni macchinosi soffocano l’arte nell’oggetto, tenendo lontane le mani non più amorose di chi lavora.” Oppure come quando in un suo racconto intitolato “La chioma della sirena” in cui paragona appunto le sue “amate matasse di canapa” a “un’abbondante capigliatura marina”: “Che prendo tutta nelle braccia, avvolgo il viso in quella freschezza, in quell’odore di mare di barca di reti”. Dove l’esperienza sensuale della percezione corporea si compenetra all’esperienza olfattiva. Ci sono buoni motivi per credere che in questa integrazione e cooperazione dei propri sensi ci sia uno dei segreti dell’universalità e bellezza del suo lavoro. La capacità visiva che sicuramente non le faceva difetto si integra con altre dimensioni sensoriali: “…a sentire una composizione coloristica non concorrono soltanto gli occhi ma anche la musicalità della nostra anima e tutti gli altri sensi” perché “c’è della musicalità nel colore e del colore nella musica”.
La consapevolezza
Che Anita Pittoni fosse un’artista è ovvio a chiunque sbisighi (si dice così a Trieste?) tra le sue opere. Ciò che stupisce è la consapevolezza con cui è in grado di descrivere il gioco degli stati di coscienza nell’atto di vedere o di produrre artisticamente, in cui l’artista “tenta, elaborando la materia, di farla parlare della sua sensualità”. “Lì davanti alla materia noi dobbiamo stare tutti bianchi nell’anima, semplici, a lei accosto per accogliere il suo disvelarsi. Il concetto su ciò che abbiamo compiuto viene dopo, quando il nostro cervello ammirerà quello che ha fatto il nostro cuore”. Concludendo questa introspezione: “E tanto più grande e sincera sarà la sua ammirazione quanto più piccola sarà stata la sua parte nel lavoro”. Che si definisca come stato alterato di coscienza, stato di trance, stato sub-corticale o condizione di cervello destro, non vi sono dubbi sul fatto che la Pittoni fosse assolutamente cosciente del suo non essere cosciente. Parlando del dialogo con la materia dice: “Ci resiste e ci riprende scherzosamente dagli sbagli eventuali, prima ancora che la nostra coscienza si renda conto di tanta saggezza”. Rovistando tra i suoi scritti troviamo che queste capacità artistiche erano già presenti durante l’infanzia, come quando descrive: “Una volta sì, me ne sono stata cheta a guardare la pioggia, rannicchiata sotto un tavolo da osteria in un cortile campagnolo. Ricordo di aver notato la pioggia dentro l’inquadratura delle gambe e del piano del tavolo sopra di me: momento di osservazione pura ma già limitata in uno spazio e forse solo per questo per me interessante”. È qui ad esempio che trova radice un’affermazione che farà molto più avanti: “il colore acquista valore quando è contenuto nella forma, intesa come proporzione”. Quindi non solo esprime ma si rende conto anche di “come” esprime, come quando parla letteralmente di afferrare la psicologia di una composizione coloristica e descrive lucidamente in che modo certi stati d’animo diventano colore. Parla ad esempio di poche note (di colore) luminose su fondi cupi in relazione a “una fantasia che più non si contiene e vuol cantare tutta la sua gioia e il suo dolore” oppure di “composizione melodica” tenue o cupa che nasce quando la fantasia è portata ad esprimere, pur contenendosi, sentimenti nostalgici. Essa ritiene che solamente il gusto artistico può creare un oggetto degno di essere eseguito perché sa perfettamente sulla sua pelle e nella sua anima, che non solo un oggetto d’arte è ‘espressione genuina del nostro intimo movimento’ ma soprattutto ci induce, modifica, soffoca o amplifica tali ‘intimi movimenti’.
Per questo aveva il sacro rispetto per la produzione di un vestito, di un arazzo o qualche altro elemento di arredamento. Perchè sapeva che ci cambierà, nell’anima e nella carne e sentiva questa responsabilità. Così come gli spazi cambiano lo stato di coscienza, il sentire e il corpo di chi li vive. Uno spazio progettato miseramente e sgraziatamente evoca effetti analoghi nella vita di chi ne usufruisce; uno spazio progettato da un architetto classico o rinascimentale non solo ci comunica, ma anche ci porta in uno stato di benessere e armonia. Oppure come per un’altra esperienza artistica quale la musica che non solo è il prodotto dello stato d’animo e della vita interiore dell’artista che l’ha creata, ma che a sua volta provoca stati d’animo e modifiche nella vita interiore di chi l’ascolta, magari per generazioni.
Psicoterapia con i vestiti
Anita Pittoni è conscia di ciò e per questo sente l’importanza che ‘la nostra vita interiore sia quanto più ricca’ perché come conseguenza ‘l’arte sarà molto più intensa’. Questo aspetto è strettamente legato ad un elemento che la caratterizzava fortemente. È noto che i suoi capi di vestiario erano praticamente studiati ad hoc per la persona che li avrebbe indossati e tutto lascia intendere che una persona geniale, intuitiva e fattiva come lei non si limitasse ad eseguire i voleri del committente.
Facciamo un breve excursus nella psicoanalisi e affini per ritornare subito dopo ai vestiti. Un percorso analitico da un certo punto di vista non è che un processo di spoliazione delle sovrastrutture familiari, culturali e religiose (falso sè) che ricoprono il nostro vero essere (sè) affinchè questo possa esprimersi. In che modo avviene questo processo? Il terapeuta (il cui significato etimologico sarebbe “accompagnatore”) riconosce, rispecchia e amplifica i lati del cliente che non sono ancora “in luce”, ma che intuisce stanno bussando e premendo alla porta dell’identità per poterlo essere. Questo avviene cogliendo segnali che si presentano, ad esempio, nei sogni o nel linguaggio o in sintomi fisici ed aiutano la persona a fare spazio e ad incontrare questi aspetti di sé. La chiave di questo processo non è tanto intuire quali sono gli aspetti non vissuti quanto piuttosto capire quali tra questi sono quelli pronti, se incoraggiati e riconosciuti, ad essere incarnati. Anita Pittoni aveva la capacità di guardare al di là della forma, di non fermarsi al personaggio che una persona le proponeva, aveva anche quella cultura che è necessaria per riconoscere gli dei presenti dentro l’Olimpo di ogni persona e che ne rappresentano i diversi aspetti. Ed era perfettamente consapevole del potere che gli abiti hanno in quanto mezzo per cambiare stato di coscienza, come quando con l’ironia e la prospettiva che le erano solite e che sfiorano quasi la presa in giro commenta così una sua liseuse: “Se avete un disguido sentimentale, e mentre vorreste essere dolci non vi è possibile riuscirvi, provatevi ad indossare questa soave camicetta rosa guarnita di pizzo bianco. Essa avrà certamente un potere sul vostro spirito facendolo subito libero da ogni senso di rancore e inquietudine”. Oppure quando pubblica la lettera della pittrice Marina Pospisilova che a proposito di una sua vestaglia chiamata appunto Marina dice: “Quando una donna indossa questa vestaglia ha il senso di entrare per la prima volta nella propria vera pelle, dentro mi sento come una placida tigre soddisfatta”.
Così come Goethe diceva “se tratti una persona come potrebbe e dovrebbe diventare, questa persona diventerà come potrebbe e dovrebbe diventare”, nel caso di Anita Pittoni si potrebbe dire “se vesti una persona come potrebbe e dovrebbe diventare, questa persona diventerà come potrebbe e dovrebbe diventare”. Anche perché non è da sottovalutare il potere e la valenza sociale che un’abito prodotto da una persona come Anita Pittoni aveva nell’autorizzare un individuo ad essere in un certo modo.
Così come paghiamo un alto prezzo quando case e città vengono costruite da soli tecnici senza la partecipazione al progetto di persone che abbiano perlomeno avuto anche un’educazione artistica e di storia dell’arte, analogamente, dal momento che l’abito e la moda possono influenzare così profondamente il nostro modo di essere forse c’è da prestare attenzione alla scelta di chi deleghiamo ad accompagnare con i suoi vestiti i nostri ‘intimi movimenti’.
In questo senso la figura di Anita Pittoni è di straordinaria attualità e potenza perché era una donna con tutti i suoi sensi così vivi e intensi e che manteneva un rapporto diretto con la materia e l’integrità del corpo e contemporaneamente era una donna che incarnava naturalmente quell’ideale rinascimentale del salotto come fucina in cui artisti e intellettuali, filosofi e tecnici si frequentano e si stimolano e completano reciprocamente. Era capace di essere manovale e imprenditrice, artista in grado di produrre d’istinto ma anche capace di descrivere con lucidità i risvolti del processo artistico. Soprattutto era una donna consapevole dell’importanza di non separare questi aspetti e di come nessuno di loro avrebbe mai potuto essere lo stesso se anche gli altri non fossero stati onorati.