Corpo, moda, mente
Come la nuova consapevolezza del corpo portata dalle tecniche corporee più avanzate sta trasformando la moda.
Intervista di Arianna Boria a Jader Tolja per la pagina culturale del quotidiano Il Piccolo.

Nel libro ‘Corpo, moda, mente’ sostenete che il nostro corpo e anche il nostro equilibrio psichico rispondono delle scelte che facciamo in termini di vestiti e accessori. Come funziona?

Si pensa ai vestiti solo come a un fatto estetico, ma non è così. Oggi, che stiamo recuperando il nostro sentire anche grazie alla conoscenza esperienziale dell’anatomia offertaci da tecniche come l’osteopatia, la terapia craniosacrale e le pratiche corporee di ascolto interiore, siamo in grado di cogliere a un livello diverso l’effetto delle nostre scelte in termini di abbigliamento. Una scarpa, per esempio, non cambia solo la forma del piede, ma cambia l’intero corpo, perché il nostro organismo è una tensostruttura dove tutto è collegato con tutto. Un reggiseno non si limita a ‘reggere’, ma condiziona il nostro respiro e ciò che succede nel cosiddettointerstizio, quel complesso mondo di fluidi che scorrono sotto pelle scoperto di recente. E il nostro mondo psichico non è un’attività localizzata nella testa, ma si radica nella nostra biologia e, come spieghiamo più diffusamente nel libro, ne riflette con precisione le condizioni e i cambiamenti.

La parte iniziale del libro è dedicata ai piedi. Senza arrivare al modello“Armadillo” di McQueen che nessuna indossatrice voleva indossare o alle zeppe di Vivienne Westwood che fecero precipitare Naomi Campbell in passerella, sostenete che anche usare il mezzo tacco ha delle conseguenze.

Non lo sosteniamo noi, ma la risonanza magnetica fatta sui polpacci di 80 donne che portano abitualmente il mezzo tacco. Uno studio inglese ha dimostrato che le loro fibre muscolari sono più corte del 13%. Ma non è questo il problema più serio, perché usando abitualmente il mezzo tacco la pelvi, che sarebbe naturalmente inclinata in avanti del 25%, si inclina invece del 45%. E in questo modo tutti gli organi contenuti nell’addome scivolano in avanti, il sangue e gli altri fluidi non circolano come dovrebbero e i nervi che partono dalle vertebre lombari hanno meno spazio. Ciò fa sì che anche in assenza di sintomi, gli organi dell’apparato riproduttivo e di quello digestivo si trovino comunque in sofferenza.

Dunque siamo ‘condannate’ alle scarpe piatte.

Sarebbe più appropriato dire ‘autorizzate’, dal momento che mentre in realtà nessuno ci obbliga a usare scarpe piatte, in molte occasioni di lavoro o mondane ci si aspetta invece di vedere gli uomini con le cosiddette scarpe all’inglese – un modo ‘elegante’ per dire che i piedi devono stare confinati in forme di cuoio rigide con almeno tre centimetri di spessore in più sotto la suola del tallone – e le donne su rialzi ancora più alti e sottili, col peso spostato quasi tutto sull’avampiede e le dita affastellate l’una con l’altra. Come dice la giovane imprenditrice dell’aneddoto che apre il libro: “Altrimenti non ho alcuna chance”.

Nel libro si riporta come emblema della consapevolezza corporea la scarpa a cinque dita del designer ed escursionista Robert Fliri. Un po’ difficile andarci in giro… Non c’è una via di mezzo?

L’arrivo di una scarpa del genere, disegnata nel pieno rispetto della nostra anatomia – una scarpa nella quale i piedi sono liberi come se fossero scalzi e protetti come con indosso le scarpe – ha reso evidente che la quasi totalità delle calzature ignora completamente tale realtà. Le scarpe tradizionali nascono infatti da astrazioni mentali per seguire le quali dobbiamo deformare i nostri piedi e compromettere la nostra stabilità fisica e psichica. Questo non sarebbe necessario se tenessimo conto di alcuni principi chiave: avere spazio per le dita, così da non essere costretti a deviarle o accartocciarle per stiparle in una sorta di imbuto; avere la stessa altezza davanti e dietro, in modo che i muscoli del polpaccio non si accorcino cronicamente; e una suola sufficientemente flessibile da permettere alle 33 articolazioni del piede di fare il movimento per cui sono state progettate (una suola spessa e rigida ingessa il piede).

Cravatta sì, cravatta no? Karl Lagerfeld che la portava con un colletto alto e rigido si castigava da solo?

Le scelte che facciamo in termini di abbigliamento, come nel caso che lei cita, mettono in luce ciò che succede a livello sociale e/o personale. La mancanza di integrazione tra vita affettiva e vita sessuale, ad esempio, si manifesta a livello di abbigliamento col bisogno di rimarcare la separazione tra petto e pelvi usando colori e materiali diversi, o vestiti e cinture che segnano la vita. Analogamente se in una società non c’è coerenza tra il sentire e il pensare, gli individui preferiranno usare colletti rigidi e cravatte che separino fisicamente e simbolicamente la testa dal corpo.

Arriviamo al punto: il body conscious design. Cos’è?

È un approccio al design che tiene conto dell’effetto che il design ha sul corpo e della reazione del nostro sistema nervoso. Ogni scelta di design – fashion, industrial, interior, architectural, urban, landscape – ci modifica agendo su di noi fisicamente, come una scarpa che devia l’allineamento delle dita del nostro piede o un divano che ci fa ‘incassare’ quando ci sediamo, e/o a livello neurologico, come nel caso del graphic design, che può entrare in conflitto o in sinergia col funzionamento del nostro sistema nervoso. Per esempio per questo libro abbiamo elaborato una grafica che risulti più neuroergonomica possibile. Un libro ben disegnato, come un edificio ben costruito, é in grado di dare orientamento, perché quando sappiamo dove siamo ci rassereniamo e ci rilassiamo; ha un buon ritmo e respiro, e ci porta a leggere, comprendere e ricordare spontaneamente, senza che si debba prendere la decisione di farlo.

C’è qualche stilista conosciuto che potrebbe essere definito body conscious? Forse un Issey Miyake, quando per esempio parla di spazio tra il corpo e l’abito per lasciar vivere lo spirito?

Gli stilisti sono ispirati principalmente da due forme di percezione: quella visiva e/o quella propriocettiva, cioè basata sulle sensazioni che si provano all’interno del corpo. Ecco, Miyake è un buon esempio di stilista body conscious perché la sua estetica non nasce dalla mente, ma dal perseguire un certo stato fisico di respiro. Lui lo fa dando spazio tra corpo e vestito, un altro stilista potrebbe invece rivelare la sua consapevolezza del corpo con abiti che ne fasciano sapientemente le forme. Tuttavia gli artisti – e quindi anche gli stilisti – sono più riconoscibili quando sono visivi, perché in certa misura tendono più facilmente a rimanere uguali a sé stessi, mentre quelli propriocettivi tendono a essere meno riconoscibili perchè, dal momento che si mettono al servizio della persona che vestono, é su questa che fanno luce, non su se stessi.

Ma così non si rischia di fare alla fine abiti tristanzuoli e poco attraenti?

Lo stesso discorso potrebbe valere per l’architettura. Fare edifici stabili e funzionali, che stanno in piedi e i cui scarichi rispettano le leggi di gravità, ha forse penalizzato la creatività degli architetti? No, semmai il contrario. Perché è solo dall’incontro coi limiti che la creatività si esalta. L’arrivo del cemento armato ha tolto molti limiti, ma non ha portato più bellezza, semmai il contrario. È stato proprio il dover necessariamente rispettare le leggi di natura che in precedenza ci aveva garantito per secoli certi standard di bellezza.