E’ nata una parola, wabi, della quale non a caso nelle lingue occidentali manca un equivalente diretto, che individua la bellezza nelle cose modeste, semplici, incompiute, transitorie. È wabi trascorrere una serata da soli in una casetta nei boschi ad ascoltare la pioggia che cade. Wabi sono una serie scompagnata di stoviglie, recipienti anonimi, muri rovinati e pietre consunte dalle intemperie e coperte di muschi e licheni. I colori più wabi sono il grigio, il nero e il marrone.
Immergerci nell’estetica giapponese e coltivare una sintonia con le sue atmosfere può contribuire a prepararci per il giorno in cui, in un museo di ceramiche, c’imbatteremo per esempio in tazze da tè tradizionali create dall’artista Honnami Koetsu. Non crederemo – come avremmo fatto senza l’eredita di seicento anni di riflessioni sul fascino del wabi – che questi esemplari siano strani sgorbi fatti di materia informe. Avremmo imparato ad apprezzare una bellezza che non eravamo nati per vedere.