Il verbo innocuo
Il pericolo degli automatismi mentali di fronte a certe parole.

Già, discriminare è un verbo che piace poco. Nulla deve mai essere discriminante. E pensare che, di per sé, discriminare è un verbo così innocuo. Viene da discrimen, che vuoi dire divisione, linea di separazione, intervallo, distanza. E quindi significa soltanto dividere, separare, distinguere. Che problema c’è? Vuoi dire che io non metto tutto insieme nello stesso luogo, ma scelgo. Abbiamo idea di quante discriminazioni al giorno compiamo? Non mettiamo i calzini nello stesso posto delle marmellate, per esempio. E possiamo benissimo, se ci va, distinguere, cioè discriminare, le mele dalle pere solo per il fatto, direi incontestabile, che le pere non sono mele, e viceversa. Nulla di male, da parte delle pere, nel loro non essere mele, giusto? E invece noi al verbo discriminare appiccichiamo subito e in modo automatico un significato negativo.

Vorrei che non ritenessimo i voti discriminanti. O meglio, vorrei che l’aggettivo discriminante fosse rimesso al suo posto e tornasse innocuo e che quindi i voti fossero sì discriminanti, ma in senso buono e naturale.

Vorrei che fosse possibile ridare alle parole il loro senso originario, e ogni volta usarle secondo questo senso, e non secondo le decine di sensi aggiunti che si sono andati sovrapponendo negli anni, creando strati, croste malsane che obnubilano la primitiva e sana sostanza, con usi impropri e meramente ideologici.

Vorrei che non reagissimo sempre come il cane di Pavlov: vorrei che si evitassero il più possibile gli automatismi mentali per cui, di fronte a certe parole, leviamo incondizionatamente gli scudi, senza fermarci un attimo a pensare che cosa davvero vogliamo dire.

P. Mastrocola