Classici
Un linguaggio per esprimere ciò che il corpo sente
Si leggono sempre meno i classici nelle nostre scuole, nelle nostre case, e così la nostra anima più non conosce le parole per nominare l’amore, per quel tanto che ha di enigmatico e buio, il dolore nelle sue espressioni che vanno dalla malinconia al mondo chiuso ed opprimente dell’angoscia, la gioia nelle vertigini della sua esaltazione,la noia nel suo spessore denso e opaco. Cosa comporta questa afasia?

Che i sentimenti attraversano l’anima senza che noi si possa dialogare con loro. Pure sensazioni che ci afferrano dilatando o comprimendo la nostra vita, senza lasciare una traccia, un’indicazione per costruire una geografia del nostro cuore, in cui potersi riconoscere senza doverci temere.

Eh, sì, perché fa paura quando ciò che si prova è senza nome e il suo percorso è imperscrutabile.

I classici, che sono tali perché hanno saputo cogliere le metafore di base dell’umano ci insegnano i nomi con cui noi possiamo chiamare e richiamare i nostri sentimenti, dialogare con loro, attutire la loro violenza, assecondare la loro dolcezza, accudire la loro incertezza, ribaltarli persino, per scoprire quanto odio c’è sotto il nostro amore, quanta aggressività sotto la nostra cortesia, quanto disprezzo nasconde la nostra lode, quanto ignobile vizio sottende la nostra ostinata virtù.

Perché i meandri del cuore sono inaccessibili alla linearità con cui la nostra ragione articola il bene e dal male, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, perché tutto ciò che la ragione distingue il cuore lo fonde e lo con-fonde, per cui il vocabolario della ragione a nulla serve per orientarci nei percorsi segreti e nascosti del cuore.

U. Galimberti
da La Repubblica