“Essere” è più complicato che “apparire”, soprattutto in una società dei consumi come la nostra, dove la pubblicità delle merci, necessaria per farle conoscere, ha contagiato anche gli uomini, i quali, degradandosi al livello di merce, hanno la sensazione di esistere solo se si mettono in mostra, compensando l’individualità mancata con la pubblicità dell’immagine. Siamo diventati tutti “es-posti”, ossia “posti fuori da noi” per cui la nostra identità più non ci appartiene, perché è laggiù in ciò che si vede e si dice di noi.
Per effetto di questa esposizione chi non si mette in mostra – in un mondo che è diventato una “mostra” che non è possibile non visitare, perché comunque ci siamo dentro – chi non è irradiato dalla luce della pubblicità, non lo riconosciamo, anzi di lui neppure ci accorgiamo, al limite non c’è. Di qui tutto quel darsi da fare per apparire, perché più non riconosciamo un nostro essere e, per via di questo mancato riconoscimento, la nostra identità è affidata agli altri.
Siamo infatti nelle mani degli altri, al punto che il nostro pensare e il nostro sentire, la nostra gioia e la nostra malinconia non dipendono più dai moti della nostra anima che abbiamo perso e probabilmente mai conosciuto, ma dal “mi piace” o “non mi piace” espresso dagli altri, a cui ci siamo consegnati con la nostra immagine, che, per non aver mai conosciuto noi stessi, è l’unica cosa che possediamo e che vive solo nelle mani degli altri.