L’ultimo capitolo è se il writer Geco debba o non debba essere punito per avere scritto Geco quasi ovunque, a Roma e in mezza Europa, dando prova di talento acrobatico, velocità di esecuzione, e però anche di attitudine monomaniaca.
Ogni artista, a conti fatti, è uno che scrive “io”, proprio come fa Geco. Però conta molto il come. Anche Giotto e Caravaggio e Banksy, per dirne tre quasi a caso, hanno fatto notare di esserci, e di essere proprio loro, inconfondibili, riconoscibili da chiunque, gigantesche presenze. Gechi al cubo, gechi immensi. Però lo hanno fatto lasciando tracce nelle quali ognuno – ecco il punto – può identificarsi, emozionarsi, capire il mondo. Si sono fatti ampiamente perdonare, insomma, il loro ingombrante io, trasformandolo in patrimonio collettivo, ovvero in qualcosa che è DI TUTTI (lo scrivo maiuscolo, come se fossi un writer).
Invece se vedo Geco scritto su un muro, anzi su tutti i muri del mondo, penso solo che uno che si chiama Geco ha voluto ribadirlo all’infinito. A suo modo, è un privatizzatore di beni pubblici. Buon per lui, male per i beni demaniali e monumentali. Io non sono Geco, però. Io sono Giotto, Caravaggio, Banksy, nel senso che grazie alle loro opere mi conosco e mi riconosco. “Disegnami una pecora”, disse il Piccolo Principe a Saint-Exupéry. Ecco, Geco: disegnami una pecora.