D’altronde, se ci pensate l’epiteto di squalo da sempre viene colloquialmente usato per qualificare intraprendenti e cinici capitanacci d’industria, e persino le nostre nonne, per descrivere un cappotto lussuoso, un’auto costosa, dicevano “è da pescecane”, riferendosi a chi faceva i soldi col mercato nero durante la guerra.
Dall’altro canto, la leggenda suole attribuire ai delfini caratteristiche mitiche, alimentate se non confermate dalla biologia e dall’osservazione sul campo. Le carpe, per contro, non hanno mai occupato una gran posizione nell’immaginario collettivo: tendono ad essere anodine, a passar via senza lasciare un segno, e nemmeno gli umani pare le appetiscano molto.
Una convinzione di fondo accomuna carpe e squali: l’universo è un posto di scarsità e penuria. E laddove i secondi ne concludono che è meglio pappare tutto quanto posso prima che me lo soffi qualcun altro, e chi rimane a bocca asciutta o con le ossa rotte peggio per lui, le prime optano per una tattica mimetica, rinunciataria, tendente a mantenere il rischio al minimo, accontentandosi delle briciole e di com’è buono lei. Per le carpe, gli squali sono cattivoni; per gli squali, le carpe sono fessi.
E i delfini (intendendo naturalmente maschi e femmine)? Stando agli autori stessi:
• I delfini hanno un’inclinazione naturale a smitizzare le altrui vacche sacre.
• I delfini non s’arrendono o cedono facilmente, perlomeno fino a che non crei una differenza. A quel punto sono capaci di lasciare e lasciarsi andare.
• I delfini non sono molto ideologici ma, se la situazione lo richiede, possono diventare intensamente politici.
• I delfini amano vincere. Ma non ci tengono a che tu perda a meno che non sia tu ad insistere per farlo.
• I delfini ti rendono subito pan per focaccia, ma sono altrettanto rapidi a perdonare, sapendo che i musi sono barriere artificiali ed insopportabili in un universo fluido.
• I delfini quasi sempre agiscono sulla base di una visione globale, ma sono anche capaci di focalizzarsi sui minimi dettagli.
Benissimo: ma come fanno a farcela?
Di nuovo parole loro:
• I delfini di entrambe le varietà, quelli di mare come quelli di terra, stanno bene in un ambiente arduo.
• Vigilano perennemente, leggono le correnti, cercano indizi, tengono d’occhio le evoluzioni.
• Prendono volentieri iniziative in gruppo, oppure agiscono da soli con competenza.
• Se quello che fanno non funziona, si mettono senza remore a fare qualcosa di diverso, cercando cosa funziona realmente.
• E se proprio è necessario, possono anche infliggere ad uno squalo colpi mortali.
Tutto qui? No, ovviamente, c’è ben altro che una mera sequela di sintomi e ricettine, ma ci arriveremo. Va prima notato però che gli autori si prendono la briga di definire anche cosa un delfino non è: non è, vivaddìo, un superpesciolone metallizzato che sfreccia impavido tra computer e sale riunioni, graziosamente somministrando al volgo la sua superiore saggezza, sbigottendo i semplici con la profondità delle sue intuizioni, impartendo urbi et orbi l’unicità rivoluzionaria delle sue visioni.
I delfini non sono nemmeno guru asettici e disincarnati, umanisti idealisti occultisti misticisti. I delfini stanno a loro agio tanto nella stanza dei bottoni quanto nello sgabuzzino delle scope: il punto non è tanto il “cosa”, ma piuttosto il “come” e il “perché”. Non pensano in termini di “vincere/perdere”, ma amano perdere o vincere a seconda di quanto ne possono imparare, e di quanta eleganza ci sanno mettere.
Per questo, a volte è facile scambiarli per squali, o carpe, di cui possono assumere i comportamenti se questo pare loro appropriato. E’ anzi tipico che una carpa tenda a percepire l’assenza di smancerie di un delfino come squalesca, ed uno squalo possa prendere la sua amichevolezza di base per carpitudine.
In realtà, l’unico segnale vero che ci si trova nei pressi d’un delfino è quando si nota che una data situazione continua a progredire quando, stando alle ragionevoli aspettative, avrebbe da tempo dovuto smettere di farlo. Un mio maestro diceva: avete presente quelle persone che quando passano fanno crescere i fiori?
Beh, un delfino fa fiorire tutto ciò che cresce. Ma torniamo un po’ al come e al perché, visto che li abbiamo definiti punti essenziali.
Va detto innanzitutto che anche le summenzionate strategie di carpa e squalo non sono sciagure inflitte all’umanità da una divinità capricciosa e crudele, ma fanno parte del patrimonio adattivo ed evolutivo della specie umana.
Sono legate a, e determinate da, quelle strutture cerebrali che ci hanno permesso di sopravvivere quando vicino all’uscio di casa o sul luogo di lavoro era più facile incontrare una tigre dai denti a sciabola che la vedova Palpazzetti-Fischioni. Sto parlando del sistema limbico, e della sua tendenza in situazione di stress a favorire, tramite gli opportuni canali neuroendocrini, una di queste risposte condizionate: combattimento, fuga, o congelamento (facile da ricordare in inglese, perché allittera tutto in effe: fight, flight, or freeze).
Capite bene come, imbattendoci tra il lusco e il brusco nella succitata tigre, c’è poco da pensarci su: o ci tuffiamo nella lotta con furia implacabile, o schizziamo via a gambe levate; e se nessuna delle due ipotesi è praticabile, allora tanto vale immobilizzarci, non fiatare e fare il morto, visto che pare nessun animale appetisca i cadaveri, se non le iene e gli avvoltoi. E tutto questo deve avvenire in automatico, quasi un riflesso, perché in tali frangenti anche una frazione di secondo può salvarci la pelle.
Peccato che le situazioni di stress dei giorni nostri, quelle che con l’arzilla Palpazzetti-Fischioni vedono implicati il ragionier Timbrassi, il commendator Quitivoglio e noialtri stessi, da questo tipo di reazioni inconsce siano, anziché risolte o alleviate, aggravate ed impedite. Siamo vittime di quello che Daniel Goleman, nel suo best-seller Intelligenza emotiva, edito da Rizzoli, chiama il “sequestro emotivo”: il sistema limbico reagisce col suo software delle caverne prima che la nostra corteccia cerebrale possa inventarsi una soluzione più matura, soddisfacente e creativa alla faccenda da affrontare. E il grave è che il meccanismo si applica non soltanto a episodi isolati, ma diventa cronico, diventa carattere, con lo squalo che è compulsivamente costretto a combattere sennò si crede perduto, e la carpa che è una tossicodipendente del quieto vivere sennò si crede spacciata.
E allora, dicono i nostri, il primo colpo di coda verso la delfinizzazione (non avrete mica creduto che delfine si nasce per imperscrutabile benevolenza del Fato, sennò ciccia? sarebbe in piena contraddizione con lo spirito evolutivo che caratterizza il libro da cima a fondo), la prima stimmata di una delfinità in atto è un cambiamento di mentalità, di assunti di base. La metanoia, un mutamento di coscienza, la chiama Peter Senge e la caldeggia ne La quinta disciplina altro best-seller di managerialità innovativa.
Prendete ad esempio questo, che gli autori chiamano il “preambolo psicologico della delfina”:
“Sono un delfino, e credo nella scarsità potenziale quanto nell’abbondanza potenziale. E dato che sono convinto che possiamo avere l’una o l’altra a seconda di ciò che scegliamo, e che possiamo imparare a fare leva su quello che già abbiamo per utilizzare le nostre risorse in modo elegante, eleggo la flessibilità e l’ottenere di più facendo di meno a capisaldi del modo in cui creo il mio mondo.”
Accipicchia: in questo estratto di saggezza epistemologica (e cos’è l’epistemologia? E’ quella cosa, diceva Bateson, che se uno sostiene di non avere è segno che ne ha una pessima – per quel che c’interessa qui significa non limitarsi ad agire e tutt’al più a pensare a come agiamo, ma è salire di livello e pensare a come pensiamo: secondo i nostri autori, un prerequisito irrinunciabile della delfinitudine), dicevamo in questo concentrato di vitamine esistenziali, ci troviamo spunti su cui ci si potrebbe soffermare per pagine e pagine.
Vediamo di limitarci all’essenziale: il nocciolo della questione è che il mondo in cui viviamo ce lo creiamo noi. Vero o falso che sia, non ha la minima importanza. L’importante è che, se ci credo, mi prendo la responsabilità di quello che mi accade, e di conseguenza ne ricavo potere personale. Il che non equivale affatto a un delirio di onnicontrollo e onnipotenza: il punto è, come diceva qualcuno, che l’esperienza non è ciò che ci accade ma quello che noi facciamo con ciò che ci accade.
La responsabilità allora è semplicemente mantenere, rafforzare e coltivare l’abilità di rispondere, ovvero di percepire e reagire, che in quanto esseri dotati di libero arbitrio nessuno al mondo ci può togliere se non noi stessi. Da qui la flessibilità e la disponibilità ad imparare. Se invece credo che la causa delle mie gioie e dolori stia fuori di me, o sia tatuata nella mia psiche oramai indelebilmente, posso accomodarmi nell’angolino della vittima, o sperare nella grazia ricevuta. E perché allora non fare trentuno, e partire dalla convinzione che “Il mondo è un posto ripieno d’abbondanza, e basta lasciarsi andare con fiducia al corso delle cose perché, governato da un’intelligenza superiore, tutto vada al suo posto con perfezione e sincronicità mirabili”?
Forse che non basta “Pensare positivo” e giocare a “Io vinco/Tu vinci”? Pare di no. Perché questi sono i ciucciotti esistenziali magici, consolatori e prêt-à-porter di quella che gli autori chiamano la Carpa Pseudo-Illuminata (Carpa PI).
E qui i nostri ci vanno insieme con pinne leggere e denti affilatissimi.
Un atteggiamento che ci porta dritto filato a varie trappole, delle quali due sono esemplificative: ad un estremo sta la beatifica credenza che tutto è possibile perché, se solo apriamo i canali giusti, un universo amorevole sarà sempre e comunque lì a pararci il didietro e sorriderci, che di solito risulta in iniziative temerarie, utopistiche e prive di senso della realtà; all’altro estremo – e di solito appena dopo in ordine cronologico – troviamo la rabbia delusa di chi si ritira dall’ambiguità, dai conflitti, dal sangue sudore e polvere da sparo delle umane intraprese, ritenendo che la feccia dei non-illuminati sia indegna del suo sporcarsi le mani.
Per carità, le ottime Carpe PI sono per davvero più evolute di uno squalo o di una carpa tout court. Hanno cominciato il mai abbastanza benedetto lavoro epistemologico di ridiscutere le fondamenta stesse della propria filosofia di vita, sono in grado di abbracciare più complessità, ci hanno guadagnato in sensibilità e salute psicofisica. Nel loro caso però sembra che la sostanza da cui dipendono sia diventata il guarire ad infinitum, e che il mondo debba strapazzarli di coccole sennò non giocan più.
E siccome il mondo così lattemiele non è, le CPI ricordano teneri Peter Pan che si baloccano chiedendosi cosa faranno da grandi, e se oltretutto vale veramente la pena di diventarlo. Il motto dei delfini invece esce dall’opposizione artificiosa “o mi incartapecorisco in un adulto sclerotico, o resto un eterno fanciullo”, e recita: e adesso cosa faccio mentre continuo a diventare grande?
OK, bellissimo, ma nella pratica tutto ciò che fa?
Questo significa che, nell’affrontare una situazione, un delfino si chieda cose del tipo: quali regole del gioco si stanno seguendo? Qual è la coreografia invisibile ma intuibile che sembra guidare azioni e interazioni? Quali sono gli automatismi nei processi di pensiero che si dànno per scontati e come si può, di converso, esplorare il mai finora pensato, generare soluzioni e non compromessi, creare possibilità laddove parevano esserci solo vincoli? E così facendo, mettendo al mondo cose, idee, soluzioni e artefatti che prima non c’erano, in ultima analisi il delfino aggiunge ricchezza all’universo in cui vive. A differenza dello squalo, che lo depreda, della carpa, che lo rosicchia, e della Carpa PI che lo lascia così com’è, girando a mille senza la marcia inserita.
La strategia del delfino dunque non è un “Io vinco/Tu vinci” semplice, che si caratterizza per una tendenza al compromesso dove tutti ne ricavano un moderato vantaggio e una moderata perdita, ma è un “Io vinco/Tu vinci” elevato a potenza, che manda un riverbero benefico a spasso per tutto il sistema. Altre domande più specifiche, a titolo di esempio: ma chi ha mai detto che una riunione efficace debba consistere solo di parole? Chi ha stabilito che se tu mi ami passerai con me almeno cinque sere la settimana? Lo ha sancito il tribunale dell’Aja che la leadership in un gruppo di lavoro dev’essere incarnata da una persona fissa? E’ forse scritto sulla pietra che solo gli artisti lavorano anche quando si prendono tempo per fantasticare? Anzi, da quando in qua si possono considerare artisti solo stravaganti signori imbrattati di vernice, o ragazzette consumate da Tersicore? Per i nostri agili cetacei l’arte, ovvero la creatività, ovvero l’essenza della delfinitudine stessa, sono una secrezione naturale dell’essere umano in buono stato di salute: se mancano, sospettate la magagna.
Un delfino crea l’insolito là dove regnava il risaputo, scopre l’ovvio che nessuno più vedeva per via di un’accecante ipnosi collettiva, rifiutandosi di adorare lo status quo come un feticcio, onorando invece lo spirito generativo che è insieme causa ed effetto del fluire naturale della vita. Splendidi casi concreti di questo si trovano in un altro libro a cinque stelle, di cui il già citato Goleman è co-autore con Paul Kaufman e Michael Ray: The Creative Spirit, editori Dutton e Penguin. Si va da Newton al Vilcoyote, da una rassegna di straordinarie scoperte scientifiche all’esplorazione di un asilo di Reggio Emilia il cui motto è “Niente senza gioia”, dalla ditta di abbigliamento sportivo Patagonia, che ha creato un asilo e un nido interni all’azienda con libertà delle madri di vedere i figli quando vogliono, a una ditta svedese che ha deciso di mantenere una trasparenza totale del bilancio aziendale, con riunioni settimanali in cui a tutti viene svelata ogni cifra relativa all’andamento dell’azienda, e di adottare un’unica “job description” per chiunque, dal nettacessi al presidente: su ogni biglietto da visita trovate scritto: Gino Ginetti, Persona Responsabile.
Non avendo nulla da perdere, ma solo moltissimo da imparare, il delfino gode anche di un rapporto tutto speciale con l’assumersi dei rischi. Lungi dall’essere un temerario come parecchi squali e alcune Carpe PI, o un codardo come le carpe carpose, il delfino pare vivere sulla base del noto assioma, denso di saggezza popolare: quel che non soffoca, ingrassa.
E così il delfino non affoga nelle onde di cambiamento del mondo, né tenta di opporvisi. E’ specialista del surf. Talmente specialista che non aspetta la fase discendente dell’onda per cambiare se stesso (vedi figura): rimanendo aperto a cogliere i segnali che il futuro lancia al presente, gode nel mutare ancora prima che diventi una necessità esterna. Il cosiddetto stress non lo consuma: per dirla col biologo francese Henri Laborit (Elogio della fuga, Oscar Mondadori), il delfino si autoprocura eustress, lo stress tanto buonino.
Che è definito invece da Mihalyi Csikzentmihalyi, “creativologo” di fama mondiale, come quel tempo di puro fluire in cui la sfida da affrontare e le capacità per risolverla stanno in equilibrio dinamico, equidistante dalla noia (carpotica) e dall’ansia (squalotica).
Il cervello di quel birichino del delfino arriva dunque persino a ricercare da sé le condizioni per il proprio continuo cambiamento.
Porsi delle scommesse, sfardellarsi dell’obsoleto fertilizzando il nascituro, passando così da uno stile di sopravvivenza, fondato sul mantenimento e sull’evitare le sventure, ad uno stile di vita sul serio, fondato sull’apprendimento costante e sull’integrazione tra immaginazione e realismo.
Gli autori, seguendo le ricerche di Luria, un neurologo di fama mondiale vissuto in Russia agli inizi del secolo, sospettano fortemente che un ruolo chiave in tutto ciò lo giochino i lobi prefrontali: l’intuizione è soggetta a verifiche ed ulteriori ricerche, ma quello che è certo è che il cervello dei delfini ha un rapporto tra peso proprio e peso corporeo leggermente più favorevole di quello di noi umani. E che la loro corteccia cerebrale, l’ultima fioritura evolutiva di quel gomitolo neuronale che giace largamente inutilizzato tra le nostre orecchie e di cui noi umani andiamo così tronfi, è spessa quanto la nostra, e mentre quest’ultima è una relativa parvenue, la loro è fatta così da eoni: e la corteccia è proprio la struttura cerebrale deputata all’elaborazione astratta e simbolica, alla produzione del pensiero, alla creazione e all’immaginazione.
Il libro esplora poi una quantità ammirevole di altri concetti e modelli, che esulano dalle possibilità di questo articolo. Amerei perciò terminare con un daterello succoso, che differenzia ulteriormente delfine e delfini da quei paleodominatori degli squali, da quelle archeolagne delle carpe, e in effetti da tutti gli altri membri del regno animale: una caratteristica che i delfini hanno dimostrato è quella di dilettarsi reciprocamente con rapporti sessuali spontanei, al di là di esigenze riproduttive, per puro gioco ed affetto. Che diamine, non si vive di solo cervello!