Anzi penso, per comandare gli altri, forse una certa semplicità – se unita a prepotenza, velocità e furbizia – può essere d’aiuto.
Mi guardo intorno. I grattacieli in costruzione galleggiano nella foschia. Brutti condomini, stradoni infiniti, troppe automobili. Forse è sempre stato così. Forse i capi sono sempre stati in media più stupidi dei loro sottoposti; direi che i loro sudditi; le star dei loro fan. Forse anche l’aspetto di questa città, ora, adesso, ha a che fare con le decisioni di idioti e mediocri. Come è fatto un capo? Come vede se stesso? Quali sono i suoi requisiti minimi? Che immagine di sé ha l’idiota che ho appena incontrato?
Me lo immagino davanti allo specchio al mattino. Sorride. Si vede bello, il cretino.
Lo visualizzo in calzoncini bianchi che gioca a tennis o in ghingheri che corteggia una donna, certissimo di risultare irresistibile. Il senso del ridicolo non lo ha mai sfiorato. Mi domando se alla base di tanta sicurezza ci sia più stupidità o vanità, più ottusità o narcisismo. E in quell’istante comprendo.
La sua attitudine al comando sgorga, prima di tutto, da un’abnorme considerazione di sè. Non suffragata dai fatti, ma così intensa da convincere gli altri. La vanità è una forza, non coincide con la stupidità, però può assomigliarle parecchio perché costituisce sempre un’impedimento all’esercizio dell’intelligenza. Impedisce di vedere gli altri e li trasforma in uno specchio della propria bravura, cioè del proprio potere.
Chi comanda per vanità per glorificare se stesso, finisce sempre per compiere scelte sbagliate – premierà gli adulatori, correrà rischi insensati, si dimostrerà ingiusto – perché solo così, sbagliando apertamente e impunemente, può verificare la propria potenza e provare l’ebbrezza di vedersi riflesso nell’impotenza degli altri.