Il piacere di lavorare con altri
Lavorare insieme può veramente
essere fonte di significato e di vita.
Se non è così allora è solo un impiego.
P.M. Senge
Riuscire a rispettare i propri bisogni è un problema di creatività, anche per quanto riguarda il lavoro.
Il mio lavoro consiste anche nello scrivere, e quasi sempre ho scelto di farlo con altre persone.

A parte il fatto che se esistesse anche una sola persona che scrive meglio di me, sarebbe già un motivo sufficiente per non lavorare da solo – perché renderebbe più piacevole e quindi anche più chiara ed efficace la lettura -, in realtà questa scelta è principalmente la conseguenza diretta e naturale della logica del corpo applicata al lavoro.

Il corpo esprime i suoi bisogni con il linguaggio del piacere e manifesta il fatto che ce ne siamo allontanati con una sensazione di sforzo. Realizzare un libro, ad esempio, è un processo composto di infiniti passaggi, che, se fatti con attenzione, richiedono normalmente alcuni anni. Considerato anche che altri aspetti della vita professionale, e non, riempiono già la giornata, la visione mentale del risultato finale per me non è più una motivazione sufficiente a realizzare tutti questi passaggi. Per cui alla fine mi troverei o a non portare a termine il progetto, o, come dicevo, ad ammalarmi per lo sforzo di riuscirci, come spesso accade a chi si sfinisce per rispettare una scadenza.

Quindi l’unica alternativa che ho per non abbandonare i progetti, o per non entrare in una logica mentale di sforzo, è di lavorare a partire da una sensazione piacevole per il corpo, anche perché altrimenti nel risultato finale tale sforzo verrebbe percepito e sarebbe in contraddizione con il contenuto.

Partecipare ad un progetto comune con una o più persone rende tutti i passaggi più piacevoli ed efficaci perché motivazioni, idee, sensazioni e riscontri si semplificano nel processo di scambio, e la divisione dei ruoli rende più efficiente il processo: se scrivo o modifico una generazione di bozze, l’altra persona all’istante è in grado di dare un feed-back, o di apportare delle correzioni che derivino dall’avere una prospettiva distaccata che chi ha scritto personalmente il pezzo non potrebbe avere se non dopo alcuni mesi.

Credo che la logica di ‘un uomo solo al comando’ appartenga alla storia di altri tempi. Come ben sa chi lavora nell’editoria o nel cinema, un libro o un film sono in realtà il prodotto di un gran lavoro collettivo. Per riconoscibilità, semplicità e altro, quasi sempre si mette inevitabilmente il nome di un solo autore sulla copertina, ma spesso vi sono persone che hanno lavorato e curato il testo più dell’autore stesso, anche se non si vedono.

La domanda è: se io fossi quest’altra persona, riuscirei a dare il meglio del mio contributo se sentissi che il mio lavoro non è riconosciuto o è riconosciuto solo formalmente e non nella sostanza? Il mio comportamento è la conseguenza diretta della risposta che mi do a questa domanda.

Io riesco a dare il meglio di me stesso solo se sento l’appartenenza a un progetto. In questo caso posso anche rimanere sveglio tutta una notte a lavorare, solo per l’eccitazione di riuscire a migliorarlo. Se facessi lo stesso solo perché sono pagato, come dicevo, non lo farei bene, né starei bene.

Un imprenditore che era venuto a fare un master di Pensiero Corporeo, ogni volta che ritornava al lavoro dopo il week-end sentiva l’urgenza di distribuire ulteriormente la quota azionaria tra le persone con cui lavorava, trasformando i ‘dipendenti’ sempre più in soci, e ottenendo risultati sempre più gratificanti, perché i clienti della sua azienda ‘percepivano’ il nuovo clima che si era creato.

Jader Tolja
Dal libro La malattia sana