Io mi impegno a migliorare la mia vita; Io lavoro per raggiungere i miei obiettivi; Io aumento il mio senso di giustizia; Io sto facendo qualcosa di me stesso oppure, risposta più comune di tutte: Io cerco la felicità, il che equivale a dire che voglio che il Graal serva me. Chiediamo a questa grande cornucopia della natura, a questa grande effusione femminile di tutta la materia del mondo (l’aria, il mare, gli animali, il petrolio, le foreste e tutto ciò che il mondo produce), noi chiediamo che tutto serva noi.
Ma non appena la domanda è posta, la risposta arriva, riverberando attraverso i saloni del castello del Graal: il Graal serve il Re del Graal. Anche la risposta è enigmatica. Tradotta, significa che la vita serve quello che un cristiano chiamerebbe Dio, che Jung ha chiamato Sé e che noi definiamo con tutti i molteplici termini che abbiamo elaborato per indicare ciò che è più grande di noi. E’ anche possibile usare un altro linguaggio, meno poetico ma forse più facile. C.G. Jung parla del processo vitale come della ricollocazione del centro di gravità della personalità dall’Io al Sé. Vede in questo il lavoro esistenziale dell’uomo il centro del significato di ogni impresa umana. Quando Parsifal capisce di non essere il centro dell’universo (e neppure del suo piccolo regno) è libero dall’alienazione e il Graal non gli è più vietato.
Se abbandoniamo la convinzione idiota che il senso della vita stia nella felicità personale, allora troviamo questa qualità elusiva immediatamente a portata di mano.
Lo storico e uomo politico francese Alexis de Tocqueville andò in America più di un secolo fa e fece alcune osservazioni acute sullo stile di vita degli americani. Disse che c’è un’idea fuorviante all’inizio della loro Costituzione: la ricerca della felicità. Non si può cercare la felicità. Se procediamo nel compito umano della vita, la ricollocazione del centro di gravità della personalità in un qualche cosa di più grande che sta al di fuori di noi, la felicità sarà il risultato.