Nel 1972, quando ero al quarto anno di medicina, studiai per un certo periodo all’Università di Bangalore. Il primo corso che frequentai riguardava l’esame delle radiografie renali. Guardando la prima immagine, conclusi che il paziente aveva un cancro. Per rispetto, decisi di aspettare un po’ prima di dirlo in aula. Non volevo fare l’esibizionista. Si alzarono diverse mani e, a uno a uno, gli studenti indiani descrissero la diagnosi, l’evoluzione e il trattamento della malattia. Continuarono così per mezz’ora, rispondendo a domande cui credevo potessero rispondere solo medici esperti.
Mi resi conto di aver preso un’enorme cantonata. Dovevo essere finito nell’aula sbagliata. Quelli non potevano essere studenti del quarto anno, bensì specialisti. Non avevo nulla da aggiungere alla loro analisi. Mentre uscivamo, dissi a un mio compagno che avevo sbagliato aula. «No,» replicò «siamo noi quelli del quarto anno.» Ero senza parole. Avevano i segni delle caste sulla fronte e vivevano dove crescevano le palme. Com’era possibile che fossero molto più preparati di me?
Nei giorni successivi scoprii che avevano un libro di testo spesso il triplo del mio e che lo avevano letto tre volte più di me. Quella fu la prima volta in vita mia che dovetti cambiare di colpo la mia visione del mondo: la convinzione di essere superiore perché venivo da un determinato Paese, l’idea che l’Occidente fosse il migliore e che il resto del mondo non l’avrebbe mai raggiunto.