L’insegnamento in stile «guru»
Nessuno può farti sentire piccolo.
A meno che tu non sia d’accordo nel sentirti piccolo.
Lillie Devereux
Quali sono le dinamiche inconsce che portano a prediligere tale scelta?
L’insegnamento è un’attività che, indipendentemente dall’età e dal tipo di persone coinvolte, si presta molto facilmente a instaurare, per chi ne abbia l’inclinazione, una relazione analoga a quella tra un genitore e un bambino.

Le principali dinamiche che, dopo l’età infantile, si possono instaurare in un contesto di insegnamento sono due. Quella adulto/adulto e quella genitore/bambino.

Nella prima, chi insegna e chi apprende si considerano entrambe persone adulte e si riconoscono reciprocamente tale qualità. Le differenzia solo il fatto di rivestire un diverso ruolo, e ciò accade limitatamente a un determinato tempo e contesto di competenza.

Nella seconda dinamica, invece, il ruolo e la persona sono tutt’uno, e lo sono a tempo pieno. Qui si assiste anche a una decisa polarizzazione delle qualità:  saggezza, maturità, competenza, potere diventano appannaggio della prima figura (insegnante/genitore), e il loro aspetto complementare della seconda (allievo/bambino).[1]

Una particolare alchimia

Questo stile di insegnamento non è che la declinazione a livello educativo di una strategia di vita comune, cioè la strategia basata sul potere. Tale strategia nasce come conseguenza di una condizione di deprivazione, di mancanza di aiuto e di impotenza vissuta durante l’infanzia, quando il bambino, fortemente preoccupato di riuscire a soddisfare le proprie necessità, manifesta un atteggiamento molto centrato su di sé e sui propri bisogni. Ciò che caratterizza la strategia di potere è un paradosso tanto semplice quanto elusivo: ci si mette nel ruolo della persona demandata a soddisfare i bisogni degli altri perché da questa posizione si hanno più possibilità di soddisfare i propri.

Il forte attaccamento che alcuni di noi sviluppano nei confronti dell’insegnante che si atteggia a «guru», o che si lascia irretire dalle aspettative di chi vuole vederlo come tale, è il risultato di una particolare alchimia che potremmo descrivere così: mentre a livello mentale pensiamo di trovarci di fronte a un essere superiore – e di fatto lo è, ma solo perché abbiamo scelto noi, inconsciamente, di metterci in una condizione più regressiva rispetto alla nostra condizione reale –, a livello corporeo percepiamo empaticamente la vulnerabilità e il bisogno che si cela dietro al personaggio interpretato e sentiamo perciò l’impulso di proteggerlo e di metterlo a suo agio.

Tuttavia dal momento che nel mondo reale non tutti sono disposti ad accettare e proteggere un’insegnante che si pone col piglio del guru, chi pensa di poter essere amato solo se molto speciale, per mantenere il proprio particolare equilibrio mentale ha la necessità di evitare confronti troppo ravvicinati con la realtà e con chi può ricordargliela. Per questo motivo chi si pone in questo modo in genere sente il bisogno di creare un contesto proprio in cui isolarsi insieme alle persone che, per la combinazione di fascinazione e compassione di cui si parlava, condividono la visione che ha di se stesso.

Due strategie complementari

Da un punto di vista psicodinamico, il rapporto tra chi insegna in stile «guru» e chi lo segue potrebbe essere letto come un contratto di supporto e rassicurazione reciproca tra un individuo che per sopravvivere ha bisogno dell’attenzione e dell’energia altrui a conferma di una particolare idea di sé, e persone disposte a rinunciare ai propri bisogni e agli aspetti più evoluti di sé per soddisfare quelli di un altro individuo. In questo modo si rinuncia a soddisfare i propri bisogni direttamente e ci si accontenta di soddisfarli per interposta persona, grazie a una forte identificazione con lui.

Volendo estremizzare, l’inclinazione a sviluppare una dinamica di tipo genitore/bambino anche tra persone adulte nasce dall’incontro di due tipologie caratteriali complementari, che si integrano a vicenda.

Da una parte c’è una persona, nel ruolo dell’insegnante, che compensa le proprie insicurezze, e il senso di impotenza e vulnerabilità che ne conseguono, con il ‘sentirsi speciale’. In questo non c’è presunzione o arroganza, ma il tentativo di compensare quel deficit di radicamento della mente nel corpo che si determina durante il processo di crescita quando crediamo di poter essere amati solo per quello che rappresentiamo e non per quello che siamo.

Dall’altra parte ci sono persone che hanno trovato una strategia di sopravvivenza nell’atteggiamento opposto: la rinuncia a ‘sentirsi speciali’. Questo atteggiamento si sviluppa quando si cresce in un ambiente che ci prende in considerazione solo nella misura in cui ci occupiamo dei bisogni dell’altro. E anche in questo caso si instaura più facilmente quando la mente, non potendo radicarsi nel corpo e nelle sue sensazioni, manca di punti di riferimento interni e deve quindi cercarli in una figura esterna.

La dinamica di cui parliamo è quindi, nelle sue forme più conclamate, il risultato dell’incontro e della complicità tra due tipologie di persona per certi versi opposte, accomunate però dalla stessa, tanto dolorosa quanto inconscia, esperienza di fondo: nessuna delle due ha avuto la possibilità di radicare il suo essere e il suo sentire nel proprio corpo perché nessuna delle due si è sentita riconosciuta e amata per come era, ma solo per ciò che rappresentava la prima, e per la rinuncia alla propria individualità la seconda.

Il costo dei due ruoli

A un certo punto, però, può accadere che gli insegnanti e i praticanti coinvolti in tale dinamica crescano, sia personalmente sia professionalmente. Se aumentano l’autostima e la fiducia nelle proprie capacità, è facile allora che si cominci a provare una sorta di fisiologica e progressiva insofferenza per il ruolo limitante offerto da questo copione.

Per esempio, chi segue una formazione può notare che la persona che si cala con convinzione nei panni di «maestro/a» ha difficoltà ad ascoltare. Si accorge cioè che la comunicazione non è bidirezionale, come avviene tra adulto e adulto, ma segue un flusso che va dall’insegnante al praticante, come nella modalità genitore/bambino. La difficoltà ad ascoltare deriva certamente dalla convinzione di sapere meglio e di più di chi ci sta davanti. Ma, se andiamo a vedere, anche dal fatto che quando siamo impegnati a interpretare una visione idealizzata di noi stessi, rimaniamo così concentrati sulla conferma del nostro ruolo che i contenuti dell’insegnamento e l’ascolto degli interlocutori di fatto passano in secondo piano. E il pubblico viene selezionato in base al sostegno dato a tale ruolo, invece che in base al riconoscimento delle qualità dell’interlocutore.  

D’altro canto, chi insegna, percependo le limitate possibilità previste dal proprio personaggio, potrebbe prima o poi cominciare a percepire come riduttivo e forzato chiamare i partecipanti ai propri corsi «studenti» e «allievi», dato che si tratta di persone adulte, già affermate in altri campi della vita, che vogliono solo conoscere, approfondire e fare esperienza di determinati ambiti.

Il vero problema di un rapporto educativo basato sul modello genitore/bambino è che si caratterizza per un limite evolutivo intrinseco. Quando viene attuato fino al raggiungimento di una certa fase evolutiva, protegge la persona offrendogli, in cambio di obbedienza e di identificazione col maestro/a, i limiti che non sa ancora darsi da sé e, grazie al senso di appartenenza, una identità. Ma, da un certo stadio evolutivo in poi, mantenere questa modalità diventa il principale impedimento alla realizzazione di sé. Perché, anche se a livello formale chi insegna si adopera per attrezzare la persona rispetto a una competenza o a una professione, cioè fa di tutto per renderla più potente rispetto alla vita in generale (il cosiddetto empowerment), a livello sostanziale, continuando a porsi con una modalità genitoriale, suggerisce in modo inconscio all’interlocutore una immagine infantile di sé che riconduce quest’ultimo a una condizione di impotenza.

Il motivo per cui si sceglie la regressione

Ma perché mai pur essendo già adulti si sceglie di entrare e stare nel ruolo del bambino che si trova di fronte a un genitore? Ciò può accadere per due diversi tipi di processo:

Per un processo di tipo evolutivo. Questa regressione, se temporanea e messa in atto in un contesto migliore di quello in cui siamo cresciuti, ci permette di resettare il nostro essere e di ripercorrere e riprogrammare le nostre tappe evolutive interiori.

Oppure per un processo di tipo conservativo. Qui la persona arriva da un contesto, generalmente familiare, nel quale chi si è posto nella figura del genitore non lo ha fatto per tutelare la sua crescita, ma per soddisfare, attraverso il potere che questo ruolo dà, i propri bisogni, come ad esempio quello di controllo, che permette di sentirsi più al sicuro (se ci pensiamo il termine ‘famiglia’ deriva dal latino familia: “gruppo di servi e schiavi patrimonio del capo della casa”). Se si arriva perciò da una famiglia in cui il genitore non desidera rinunciare a tale ruolo, anche quando non più necessario, perché è il modo più ‘familiare’ di soddisfare i propri bisogni, agli altri non rimane che il ruolo complementare. Ovvero, per quanto in modo totalmente inconscio, quello del bambino. A questo punto, non avendo mai sperimentato la possibilità di passare ad altri modelli di relazione e non essendo in grado di concepirli, la persona ricerca situazioni analoghe, anche se le forme e i nomi usati sono diversi.

Nel primo caso parliamo di processo di tipo evolutivo perché la regressione in atto, risanando le basi del proprio essere, favorisce la crescita. Nel secondo caso parliamo invece di processo di tipo conservativo perché viene riproposto lo stesso copione vissuto durante l’infanzia. A meno che il riviverlo non diventi l’occasione per rendersi conto di come funziona.

 


[1] Nota preliminare: per chiarezza e semplicità, si parlerà di questa modalità relazionalecome se fosse pura, ben sapendo che, nella complessa realtà dei rapporti di tipo educativo,è invece sempre alternata o mescolata ad altre. Inoltre, essendo del tutto inconscia, in genere chi la attua tende a prendersi molto sul serio, per cui una sua caratteristica è quella di risultare molto sfuggente. Abbiamo perciò cercato di renderla più riconoscibile e meno seriosa definendo chi la propone insegnantedi tipo «guru», chiarendo tuttavia che non si intende qui affrontarela figura del ‘guru’ in senso proprio, dal momento che tale termine viene infatti utilizzato sia nei confronti di persone che per la loro disarmante umiltà sono una rara fonte di ispirazione, sia nei confronti di persone che sono l’esatto contrario.

J. Tolja - M. Buri