Pietà o fermezza?
Riflessioni sul difficile equilibrio tra comprensione e rigore.
Da tempo mi accade di considerare come il dono dell'astrattezza, prerogativa (nobile e preziosa) della mente umana, sia il vero diabolus in homine. Dalla tentazione di farne cattivo uso scaturiscono grandi pericoli.

Quella facile operazione di cui la mente si compiace, e che suscita tanta ammirazione in chi la compie e in chi vi assiste: non c’è crimine individuale o collettivo che non sia reso possibile da questo procedimento straniante di astrazione, appunto, simulazione, finzione, rappresentazione derealizzata dell’altro, avulsione del particolare dalla totalità.

L’importante è non abbassare le chances di buon esito della rieducazione infliggendo pene (qualitativamente o quantitativamente) ostative di ogni recupero del senso dell’interità perduta. Se così è, nella condanna e nella stessa pena insiste (la possibilità di) un equilibrio tra pietas e rigore: lo stesso equilibrio, in fondo, che dovrebbe presiedere alle relazioni umane.

Sono un magistrato, e sono detta severa, se non nelle pene, nella ricostruzione delle responsabilità. Quali argomenti (diversi da quelli che mi sono empiricamente data) possono guidarci nel travaglio quotidiano tra pietà/fermezza, comprensione/rigore, compassione/censura?

Personalmente diffido di tutti i casi in cui l’una è senza l’altra (o l’altro).

Credo nella compresenza di queste condizioni morali e sentimentali solo apparentemente contraddittorie. Temo che uscire dal dilemma troppo disinvoltamente comporti il salto a due piedi nell’ideologia, nel fanatismo rigoristico, nel pietismo disimpegnato con cui è facile salvarsi l’anima…

(Lettera inviata a U. Galimberti)
Da La Repubblica