“Mio figlio è molto miope” disse il signor Gong accarezzando la testa del bambino. “Non potrà andare all’università, perché non passerà l’esame della vista. Tutti noi speriamo che impari presto un mestiere; non c’è altro da fare, se vuole assicurarsi un futuro. Non facciamo che dirgli che deve diventare più serio, più responsabile, e pensare al suo futuro. Ma per ora, il suo unico interesse sembra essere il disegno.” Il bambino tenne gli occhi bassi finché il padre parlò, poi silenziosamente si riprese il suo album e scomparve in camera da letto.
Il giorno dopo mi fermai a casa del signor Gong a distribuire alcuni regali che avevo scelto la mattina per lui e la sua famiglia. Erano tutti regali molto ordinari, salvo quello per il figlio più piccolo. La storia del suo interesse per il disegno mi aveva commosso e avevo deciso di dargli gli acquerelli, i pennelli e i carboncini che mi ero portato dall’America.
Poco dopo, il signor Gong e il figlio si presentarono alla mia porta. A un cenno del padre, un colpetto col gomito, il bambino, tremante, mi ringraziò per il regalo. Un’altra gomitata del padre e il bambino mi chiese, con somma umiltà, se sarei stato così generoso da insegnargli a disegnare. La sua richiesta mi lasciò così incantato che non fui capace di rifiutare; d’altra parte, non volevo certo assumermi la piena responsabilità della sua carriera artistica. Balbettai qualcosa senza riuscire a trovare le parole e alla fine acconsentii ad andare da lui tre o quattro volte per insegnargli a usare i materiali.
Andai a casa loro la domenica successiva, dopo cena e trovai ad aspettarmi uno “spuntino” di tre portate. Poi, una volta sparecchiato, il signor Gong e la moglie, con grande rispetto, deposero sul tavolo gli acquerelli e i carboncini. Sistemarono cinque sgabelli intorno al tavolo e il bambino sedette alla mia destra con il padre, la madre e la nonna accalcati intorno a lui. Avevo pensato di spiegargli l’uso del carboncino, per vedere se capiva i principi della prospettiva a tre punti, prima di passare agli acquerelli. Posai un foglio di carta davanti a lui e uno davanti a me, gli misi in mano un carboncino e gli dissi di fare come me. Tracciai una grossa linea da una parte all’altra del foglio, usando il carboncino di lato, e gli mostrai che muovendo il polso poteva variare a piacimento l’ampiezza della linea.
Cominciò a disegnare nervosamente la sua linea, ma fece troppa forza e ruppe il delicato carboncino. I genitori e la nonna sospirarono e lo rimproverarono con modi pazienti: “Guarda che cos’hai fatto, I’hai rotto!” Il signor Gong mi chiese scusa per la goffaggine del figlio. Il bambino arrossì; ma non diede segno di emozione. Mi affrettai a spiegare che un carboncino rotto è utile come uno intero. Per metterlo più a suo agio, ruppi anche il mio con un gesto comico e gli feci vedere l’utilità di avere pezzetti di lunghezza differente. Non sembrava particolarmente divertito, ma nemmeno tanto sconvolto da non poter proseguire.
Misi davanti a noi una tazza di tè e proposi che tutti e due cercassimo di disegnarla; così avrei potuto dargli qualche consiglio mentre lavoravamo. Ogni suo gesto però suscitava le critiche, gentili ma severe, dei suoi: “Vedi come fa lo zio Mark? Il tuo è diverso, fai come fa lo zio Mark. Che cos’è venuto a fare qui se non guardi come fa lui?” “Che cosa sono quelle linee tutte storte e tremolanti? Concentrati, non stai giocando! Il tempo dello zio Mark è molto prezioso, non fargli perdere tempo.” Cercai di farlo sentire meglio facendo notare che anche linee curve e tremolanti possono essere espressive, e per fare un esempio disegnai un porcellino spaventato come quelli dei fumetti. Mi sembrò di vederlo sorridere, ma i genitori gli ricordarono che io stavo solo cercando di essere cortese, e che doveva stare attento e concentrarsi la prossima volta.
Qualunque dodicenne americano a questo punto sarebbe esploso d’imbarazzo e di rabbia, ma il figlio del signor Gong non protestò, non cambiò nemmeno espressione. Continuò stoicamente a disegnare, senza dare alcun segno né di esasperazione né di piacere.
Alla fine, incapace di sopportare oltre quell’atmosfera così pesante, mi scostai dal foglio e dissi al bambino che la cosa più importante era che imparare a disegnare gli piacesse.
“Ti diverti?” domandai, pregando che rispondesse di sì.
“Non ti diverti? Diglielo” dissero all’unisono i genitori, sorridendo.
“Sì” rispose lui, senza ironia né gioia.
E allora compresi che faccenda opprimente doveva essere questa per quel bambino, costretto a sfoggiare serietà e concentrazione per alleviare l’ansia dei suoi genitori e insieme a far contento l’americano che voleva vederlo divertirsi. Affrontò la situazione con coraggio, senza togliere gli occhi dal foglio di carta e dal carboncino che aveva di fronte – come se tutti noi fossimo troppo lontani perché potesse metterci a fuoco – e mantenendo un’espressione sufficientemente vaga da permettere qualunque interpretazione.
Poche settimane dopo che gli avevo insegnato a usare tutti i materiali, mi capitò di incontrarlo mentre andava al mercato col padre. Gli chiesi se faceva progressi, ma lui abbassò gli occhi. Il padre sospirò e gli diede un buffetto sulla testa.
“Ahimè,” sospirò “questo sciocco d’un figlio! Non disegna più, adesso sembra che gli interessi lo sport. Ma che cosa dobbiamo fare con lui?”