Lo stesso vale per il paradigma accademico della schiavitù e della grande catena dell’essere da cui deriva il nostro attuale sistema occidentale. Cerchiamo di compiacere l’insegnante, di entrare in un buon liceo, in una buona università, in una buona scuola di specializzazione, di avere un buon lavoro.
L’attore cerca di compiacere la commissione, di entrare in un buon corso di recitazione, di compiacere il direttore del casting, l’agente, il critico, e andare avanti. “Ma avanti verso che cosa?”, vi chiedo.
Questi modelli schematici e aritmetici, anche se sono rassicuranti, sono falsi. Per servire il vero teatro, dobbiamo essere in grado di soddisfare il pubblico e solo il pubblico.
Questo non ha niente a che fare col la grande catena dell’essere, o con il modello accademico. L’opinione degli insegnanti e dei colleghi è distorta, e sprecare troppo tempo a guadagnarsi la loro stima ci rende inadatti alla vita del teatro. Quando uno arriva a ventotto anni e ne ha passati ventitre in qualche tipo di scuola, ormai è fondamentalmente inadatto a lavorare sul palcoscenico come attore, perché ha passato la maggior parte del tempo a imparare l’obbedienza e la cortesia. Permettetemi di essere scortese: la maggior parte degli insegnanti di recitazione sono imbroglioni, e le loro scuole non vi offrono altro che il diritto di considerarvi parte del mondo del teatro.
Certo, gli studenti hanno bisogno di un posto dove maturare. Ma quel posto è il palcoscenico. Un modello del genere può essere, e probabilmente sarà, più doloroso di una vita passata negli studi di recitazione. Ma sarà istruttivo.
E alla fin fine, probabilmente, sarà più gentile nei confronti del pubblico farlo trovare di fronte a un’esuberanza non guidata che a una sicurezza senza vita e senza fondamento.