Per questo, quando adesso mi chiedono come è andata l’ultima spedizione, io rispondo: «È andata benissimo: ci siamo divertiti e non ci siamo fatti male. Ma non siamo arrivati in cima». Si tratta di un’analisi oggettiva. Infatti poi aggiungo: «La montagna è ancora là e io sono ancora qua».
Io non ho mai chiesto che mi venissero abbassate le asticelle. Quando non riesco a superarle ne prendo coscienza, cerco di capire il perché analizzando gli errori, i fallimenti, e mi sforzo di arrivare più pronto, e fortunato, la volta dopo per riuscire a superare quella cazzo di asticella. Attraverso gli sbagli ho rafforzato la mia resistenza, fisica quanto psichica. E ho appreso a servirmi degli errori come di un termometro per la mia motivazione, per la mia capacità di superare gli ostacoli.
Perché avrei potuto sfoderare mille giustificazioni –sono diventato papà, ho cinquant’anni, questa impresa non l’ha compiuta nessuno negli ultimi trent’anni –per venire anch’io «pluriscusato» e cambiare rotta.
Invece la rotta non l’ho cambiata. Per me gli errori sono maestri e alleati. Non arrivare in cima non è un fallimento, ma semplicemente il rinvio del successo. Le mie più grandi vittorie sono venute quasi sempre da errori precedenti. Lo Shisha Pangma insegna, come il Nanga Parbat e il Gasherbrum, solo per citarne alcuni. Di per sé l’errore è una grande opportunità da non evitare a priori. Anche perché se non fai mai cazzate non ti rendi conto davvero di quando stai facendo bene.