La bellezza, a Tokyo, non viene esibita troppo facilmente.
Paradossalmente, semmai, sono le brutture a essere esibite.
La bellezza invece è come dissimulata, miniaturizzata, protetta. Eppure diffusa a piene mani. Basta cercarla: e la si troverà di continuo, più nel piccolo che nel grande.
Un piccolo negozio, indefinibile e nascosto, a cui si accede da un garage e dove sono esposti in teche museali un paio di guanti, delle saponette, alcuni ombrelli. Tutto qui. Ciò che lo rende unico, di nuovo, è il supremo gusto per la composizione: ovvero la forma che diventa sostanza, capace perciò stesso di sprigionare energia “artistica” da un luogo che votato all’arte non è. D’altronde, non accade forse lo stesso con il cibo, i pacchetti, il giardinaggio, le lacche, gli stuzzicadenti?
La maniacale cura che qui accompagna ogni singolo gesto, il concepimento di ogni singolo manufatto, riflette una precisa postura etica, un preciso modo di stare al mondo. Ed è così che questa metropoli naturalmente votata al consumo e allo shopping, preserva una sua misteriosa spiritualità e supera di slancio l’insensatezza postmoderna: facendo leva sulla costante illuminazione, rivelazione e intuizione del bello insito nelle cose.