Ragionando d’architettura, lei chiama spesso in causa i sentimenti. E’ sempre stato così forte il carico emotivo del suo lavoro o è cresciuto con gli anni?
“Tutto è iniziato dopo la guerra, è allora che ho cominciato a reagire alla razionalità del moderno. La speranza che ci fosse una verità da qualche parte ha fatto crescere il valore dei sensi, anche perché da giovane ho vissuto una vita molto sensoriale nei boschi, qualcosa di diverso da ciò che insegnavano i grandi maestri, Le Corbusier e compagni.
Oggi il razionalismo le appare come un dio che ha fallito?
“Fallito no di certo, perché ci ha lasciato tracce profonde di idee. Quello che penso è che non basta. Il razionalismo sperava di andare avanti a misure. Ora, questo tavolo che sto toccando ha senz’altro una misura. Ma soprattutto ha un materiale, una temperatura, un peso: è una cosa, insomma, non una misura. Lo stesso Mies, nel suo padiglione per l’Expo di Barcellona, ha fatto una meravigliosa architettura di linee, superfici, distanze. Ma poi ci ha messo una vasca di acqua ferma. E ci sono poche cose più sensoriali dell’acqua ferma, piena di vermicelli. Al fondo della vasca, poi, c’è la scultura di una donna nuda. E il razionalismo che fine fa? L’acqua è imprendibile, mentre il razionalismo voleva essere prendibile. E la donna nuda non è misurabile”.