«Un uomo nasce artista così come un ippopotamo nasce ippopotamo» sosteneva, «e artisti non si può diventare, cosi come non possiamo diventare giraffe.» Dunque non gli importava affatto se i suoi studenti dell’East End uscivano dalle sue lezioni incapaci di produrre qualcosa che si potesse esporre in una galleria: «I miei sforzi non puntano a fare di un carpentiere un artista, ma a renderlo più felice come carpentiere» dichiarò nel 1857 davanti a una Commissione Reale sul disegno. Lui stesso, ammetteva, era ben lungi dall’essere un artista di talento. «In vita mia non ho mai visto disegni di bambini così poco originali o efficaci nella memoria» diceva della propria produzione artistica infantile. «Non ero capace di raffigurare un bel niente, né un gatto, né un topo, né una barca o un pennello.»
Se per Ruskin il disegno aveva dunque valore a prescindere dal talento del singolo individuo, era perché imparare a disegnare significava imparare a vedere: a notare davvero anziché a guardare e basta. Nel processo di ricostruzione personale di ciò che abbiamo davanti agli occhi sembriamo infatti migrare naturalmente da una posizione in cui stiamo solo osservando la bellezza, a una in cui acquistiamo una comprensione profonda, e dunque una memoria più salda, delle sue parti costitutive.
Così un commerciante che aveva frequentato il Working Men’s College riportò ciò che Ruskin aveva detto alla classe al termine del corso: «E ora, cari signori, tenete bene a mente che io non ho mai cercato di insegnarvi a disegnare, ma solo a vedere. Due tizi attraversano il Clare Market: uno ne esce uguale a quando era entrato, l’altro invece nota un ciuffo di prezzemolo che penzola dalla cesta di una venditrice di burro e porta via con sé immagini di bellezza che per molto tempo incorporerà nel suo lavoro quotidiano. Ecco, io desidero che voi vediate cose come queste».