I limiti dello spazio razionale
La differenza tra la concezione dello spazio moderna e quella invalsa sino a un paio di secoli fa.
Soprattutto per ragioni economiche, noi, oggi, siamo portati a fare un uso dello spazio dominato da canoni di razionalità, o forse bisognerebbe dire da quella che a noi appare essere la razionalità. Un uso che obbedisce a un'esigenza sopra ogni altra: quella di evitare sprechi. Il che, nel caso specifico, vuol dire evitare di largheggiare nei volumi degli edifici, evitare per esempio di costruire soffitti più alti di tre metri o poco più, rifuggire dall’immaginare ambienti di passaggio, come corridoi, ingressi o altri, che non siano strettamente funzionali allo scopo.

Il criterio della razionalità che domina tutta la nostra edilizia pubblica trova la sua adeguata espressione in un principio: quello delle “norme di sicurezza”. Abbiamo messo a punto tali norme – indubbiamente in base a considerazioni sperimentali del tutto ragionevoli – e quando un edificio le rispetta ci riteniamo soddisfatti.

Inutile dire che un tempo non era così. Per una ragione specialmente, e cioè che l’uso dello spazio, pur tenendo conto di una esigenza di razionalità, s’ispirava tuttavia in misura decisiva a un criterio simbolico. Il potere, tanto civile che religioso, considerava la costruzione che commissionava a un architetto come destinata sì a servire a uno scopo, ma in misura altrettanto rilevante destinata a manifestare e celebrare l’importanza, il prestigio di chi quella costruzione aveva voluto. La considerava per l’appunto un simbolo. Da qui un uso dello spazio il più delle volte orientato al grandioso.

È proprio ciò che fa sì che quegli ambienti così concepiti si rivelino oggi più umani di altri. La loro grandiosità fa sentire coloro che vi si muovono dentro non immediatamente limitati nella propria libertà, ancora consentono una parvenza di libertà che, pur illusoria, si rivela tuttavia preziosa per chi è destinato a trascorrere tra quelle mura anni e anni.

Avviene esattamente il contrario negli edifici carcerari costruiti in tempi recenti. A uno sguardo anche superficiale si capisce che qui ogni cosa è pensata per il suo uso, che non è concesso nulla ad alcunché che non sia uno scopo razionale: e tra questi c’è evidentemente l’esigenza di non affrontare costi eccessivi, laddove un tempo invece il valore economico dello spazio – a cominciare da quello del suolo – era ben poca cosa. Ne risulta che è proprio nelle prigioni ospitate in edifici antichi che la detenzione può risultare meno oppressiva, meno penosa, purché ben inteso siano rispettati i requisiti essenziali, soprattutto di igiene e di riscaldamento.

Ma come si capisce, le osservazioni appena fatte portano lontano, ben oltre il problema delle costruzioni carcerarie. Per esempio a gettare un po’ di luce sull’evidente difficoltà di tutti gli edifici, pubblici e no, della nostra epoca a incorporare valori estetici, a meno che non vi metta mano un grande architetto quello che normalmente viene costruito viceversa, si tratti di una casa o una chiesa, non riesce quasi mai a essere e ad apparire bello. Se si confronta lo standard estetico di qualunque tessuto urbano del passato con quello del presente, il risultato è a dir poco sconfortante. Come mai?

Una risposta plausibile potrebbe essere trovata per l’appunto nella sudditanza nei confronti dei parametri economico-razionali che caratterizza in modo pervasivo la cultura di noi moderni. Una sudditanza che rende difficile, anche psicologicamente, far spazio a esigenze diverse, a cominciar da quelle di natura estetica; che rende difficile non pensare che una civiltà priva di simboli alti, e ignara del valore della bellezza, è una civiltà inevitabilmente destinata alla disperazione.

C. Fiumi