Tutto ciò è pacifico, ma andiamo avanti: qual è la causa di questo disagio? Si è spesso avanzata l’idea che l’edificio dalla sommità pesante e lo spazio contratto siano brutti perché suggeriscono l’idea di instabilità, di mancamento, di restrizione e così via. Ma queste idee non sono in sé spiacevoli.
L’instabilità – o l’apparenza di essa – è nell’edificio: il disagio è in noi stessi. Che cosa è dunque accaduto? La conclusione sembra evidente: lo spettacolo concreto ha fatto ciò che non poteva la pura idea, ha stimolato la nostra memoria fisica, risvegliando in noi non proprio un reale stato di instabilità o di schiacciamento, ma quella condizione di spirito che nel passato andò legata a una nostra reale esperienza di debolezza, o di sforzo impedito, o di mancamento incipiente. Abbiamo guardato l’edificio e ci siamo identificati con la sua apparente condizione: ci siamo trascritti in termini di architettura.
Ma non è necessario che gli “stati” di architettura in cui noi così ci identifichiamo siano reali. La pressione reale di una spirale si esercita verso il basso, eppure nessuno parla di spirali “preminenti verso il basso”. Una spirale ben disegnata sembra – come attesta il linguaggio comune – aspirare verso l’alto. Noi ci identifichiamo non con la sua reale pressione verso il basso, ma con il suo apparente impulso verso l’alto, e così anche in base alla stessa eccellente – perché inconscia – testimonianza del parlare, gli archi “s’innalzano”, le viste “si stendono”, le cupole “si arrotondano”, i templi greci sono “calmi” e le facciate barocche “dinamiche”. L’architettura viene, nel suo complesso, investita da noi di movimento e atteggiamenti umani. A questo principio se n’aggiunge uno complementare: noi trascriviamo l’architettura nei termini che ci sono propri. Questo è l’umanesimo dell’architettura. La tendenza a proiettare l’immagine delle nostre funzioni in forme concrete è per l’architettura la base del disegno creativo.