Architetti ed empatia
I fili che tessono il nostro senso di appagamento sono sottili e inattesi.

Non basta che le sedie ci sorreggano comodamente, devono anche darci l’impressione di coprirci la schiena, come se in qualche misura dovessimo respingere il timore ancestrale di essere aggrediti da un predatore. Quando ci avviciniamo a una porta d’ingresso apprezziamo quelle che davanti a loro hanno una piccola soglia, un pezzo di ringhiera, una tettoia o una semplice fila di fiori o di pietre: tutti elementi che ci aiutano a segnare la transizione tra spazio pubblico e privato, placando l’ansia che ci coglie entrando o uscendo da una casa.

In genere non proviamo dolore cronico quando gli aspetti più sottili del design vengono ignorati, ma siamo costretti a un maggiore impegno per superare la confusione e il vortice del disagio. Eppure se qualcuno ci chiedesse che cosa non va, non sapremmo come spiegare gli elementi negativi del nostro ambiente. Potremmo ricorrere al linguaggio mistico citando le infelici armonie tra il divano e il tappeto, il magnetismo di cattivo auspicio proveniente dalla porta o le energie contrarie che filtrano dalla finestra. Tutti questi termini compensano le difficoltà che altrimenti avremmo nello spiegare la nostra irritazione. Benché non si possa dire che le nostre sensazioni sfidino la ragione, non è difficile comprendere perché potremmo affidarci a una sovrastruttura religiosa per dare sostanza ai nostri effimeri disagi.

Tuttavia anche questi si possono fare risalire, in fin dei conti, a niente di più occulto di una mancanza di empatia, ad architetti che hanno dimenticato di rendere omaggio ai capricci della mente umana e che si sono lasciati sedurre da una visione semplicistica di ciò che potremmo essere, invece di frequentare la realtà labirintica di quello che davvero siamo.

A. de Botton
dal libro “Architettura e felicità”