Sport da coatti
Il paradosso dello sport praticato per tacitare il corpo.
Alle persone che si sentono obbligate a correre tutti i giorni, che stanno male se non possono allenarsi e che corrono in modo solitario, senza obiettivi di partecipazione a nessun tipo di evento sportivo e che tuttavia corrono per un tempo sicuramente più lungo di quei venti minuti che uno dei padri della Fitness Revolution, Kenneth Cooper, ha dimostrato essere il tempo che massimizza i vantaggi fisiologici della corsa (naturalmente tutti noi corriamo mediamente per più di venti minuti, ma per l'efficienza cardiocircolatoria basterebbero solo quelli, Cooper docet).

Qual è allora la loro vera motivazione? Apparentemente sembra che si tratti di persone intenzionate a mantenere un contatto con il proprio corpo: io credo invece che si tratti proprio del contrario. Se il corpo diventa una fonte di angoscia – perché, poveraccio, Madre Natura l’ha creato deperibile e con tanto di data di scadenza – allora va fatto tacere; lo si tratta come i regimi totalitari trattano l’opposizione: sottomesso e privato della possibilità di esprimersi. Perciò né fame, né stanchezza vengono più ascoltate.

Viene così perduta quella che Nietzsche, in una frase spesso citata ma altrettanto poco seguita, definiva “la saggezza del corpo”. Il corpo sa benissimo, se lo si ascolta, cosa gli serve, cosa gli fa bene, cosa gli fa male. Nella mia esperienza anche i campioni, quelli veri e longevi, a differenza dell’idea di loro che esiste nell’immaginario collettivo quali faticatori rimbambiti, sono persone che sanno ascoltare a fondo questa saggezza. Ho sentito pronunciare la frase: “Oggi mi sento stanco e non faccio niente” molte più volte da atleti di alto livello che da tapascioni di infimo rango.

Insomma, credo che quest’epoca sia anche caratterizzata dal tentativo di affrancarsi dal corpo come limite, per conservarlo solo come immagine onnipotente. Questo processo parte da tanti fenomeni, dall’allenamento babbeo e coatto, privo di contatti con la realtà, alla ricerca ossessiva della salute quale totale anestesia nei confronti di ogni forma di piccolo disagio fisico. Tutto ciò che ci ricorda i limiti del corpo, i nostri limiti, diventa odioso.

Prevengo subito l’obiezione che qualcuno potrebbe fare: ma come, prima ci viene raccomandato l’allenamento mentale, le tecniche per superare la fatica e poi quando si trova qualcuno che la fatica si costringe a non sentirla, questo non va bene!

In realtà le cose sono molto diverse da quanto sembra a prima vista: per migliorare le nostre prestazioni dobbiamo confrontarci con i nostri limiti. La fatica atletica, sebbene ne esistano tante sfumature, nasce proprio dal confronto con questi limiti e l’allenamento mentale, a differenza di quanto pensano molti, non rappresenta una scorciatoia per non sentire l’affaticamento, ma è un metodo per gestire al meglio la prestazione nonostante la fatica. Si può cominciare a lavorare sulla fatica solo a partire dal momento in cui si accetta di sentirla, di confrontarsi con essa.

Chi invece si costringe a correre tutti i giorni in modo coatto, alla velocità di una tartaruga, non si sta confrontando con i propri limiti, che anzi così rifiuta: sta solo ignorando la stanchezza generale oltre che rimbambendosi alquanto.

P. Trabucchi
Dalla rivista Correre