Wabi
Ovvero la bellezza nelle cose modeste, semplici, incompiute, transitorie.
Nel Giappone medievale i poeti e i sacerdoti zen indirizzavano i giapponesi verso aspetti del mondo ai quali di rado gli occidentali hanno dedicato pubblicamente un’attenzione più che trascurabile o casuale: fiori di ciliegio, pezzi deformi di ceramica, sentieri di ghiaia passata al rastrello, muschio, la pioggia che cade sulle foglie, cieli autunnali, tegole di tetti, legno grezzo.

E’ nata una parola, wabi, della quale non a caso nelle lingue occidentali manca un equivalente diretto, che individua la bellezza nelle cose modeste, semplici, incompiute, transitorie. È wabi trascorrere una serata da soli in una casetta nei boschi ad ascoltare la pioggia che cade. Wabi sono una serie scompagnata di stoviglie, recipienti anonimi, muri rovinati e pietre consunte dalle intemperie e coperte di muschi e licheni. I colori più wabi sono il grigio, il nero e il marrone.

Immergerci nell’estetica giapponese e coltivare una sintonia con le sue atmosfere può contribuire a prepararci per il giorno in cui, in un museo di ceramiche, c’imbatteremo per esempio in tazze da tè tradizionali create dall’artista Honnami Koetsu. Non crederemo – come avremmo fatto senza l’eredita di seicento anni di riflessioni sul fascino del wabi – che questi esemplari siano strani sgorbi fatti di materia informe. Avremmo imparato ad apprezzare una bellezza che non eravamo nati per vedere.

A. de Botton