Slack
Una parola che dà agio.
Slack si traduce più o meno con “lasco”: una fune allentata, ad esempio, è, ed ha, slack, ma è anche lo spazio che lasciamo davanti e dietro alla nostra macchina quando parcheggiamo e che ci dà un po’ di respiro nella manovra, oppure lo spazio vuoto che lasciato nell’armadio o nella libreria ci permette di riporvi una giacca o un libro senza doverne togliere altri.

Oppure ritagliarsi piccoli spazi quotidiani di silenzio e quiete, in cui zittire il cicaleccio interiore e stare un po’ con se stessi, le proprie sensazioni, le proprie mute intuizioni; percepire il gioco all’interno delle articolazioni del nostro corpo, veri punti di scelta in cui l’organismo ri-decide la direzione da prendere; indossare vestiti ampi e comodi, che non intralcino i movimenti; ed è anche lo spazio alla fine di ogni compito svolto, in cui dirsi bravo e riconoscere che qualcosa è stato compiuto senza proiettarsi immediatamente nell’insaziabile futuro.

Pensando più in grande, slack, vuole anche dire concedersi spazi per essere oltre che per fare non soltanto all’interno della giornata, ma nella vita in generale, senza considerare il tempo non consacrato alla produzione materiale come davvero improduttivo: Michael Crichton, quand’era già scrittore di una certa fama, si trovò ad attraversare una cosiddetta crisi di creatività durata cinque anni, nei quali, invece di sforzarsi e tormentarsi, scelse di viaggiare, meditare, e vivere come prima non avrebbe nemmeno potuto immaginare; così, grazie proprio a questo periodo di slack, fu in grado di recuperare il dono della scrittura e comporre i suoi romanzi di maggiore successo.

Il che ci porta diritti alla conseguenza numero due: in un momento di crisi, per definizione spesso non sappiamo cosa fare, dove andare, o, più prosaicamente, dove sbattere la testa. Diciamo che ci troviamo in una impasse, o che brancoliamo nel buio. Tutte espressioni che non sembrano essere in grado di metterci nello stato d’animo migliore per affrontare degnamente la sfida che la vita ci ha approntato. Di nuovo, non avendo una parola che ci suggerisca un modo confortevole di vivere un problema, lo viviamo male per forza: nella nostra cultura, tutta l’area relativa al non sapere e al non agire sembrano partecipare del non essere parmenideo: che, come voleva il filosofo, non è punto e basta, si definisce per carenza. Un po’ come il Nulla de La Storia Infinita: la crisi come una fredda nebbia turbinosa, che implacabile si mangia via la realtà senza lasciarci un accidente in cambio.

E se provassimo invece a viverci questi momenti come fasi di slack? «Come va?» «Bah, ci siamo lasciati con Alice, non so bene cosa farò di me, mi godo questo slack.» Oppure «Non ci vedo chiaro in questo periodo, sono stufo di lottare contro i mulini a vento, mi prendo un po’ di slack e mi ci molleggio finché scorgo qualcosa di nuovo all’orizzonte.» O ancora: «Gigi, qua se ci stiamo troppo addosso finisce che non ci sopportiamo più. Che ne dici di un bello slack, due settimane ciascuno per sé e poi insieme al mare a settembre?». In sintesi, un concetto come slack ci consente di allentare la prevedibilità di una concatenazione di vita troppo serrata, pur riconoscendo che la vita continua, eccome. Ci mette in grado di ri-definire, ri-scegliere, ri-valutare ciò che davamo per scontato. E ci permette anche di sostare in santa pace, o in sacrosanta meditazione, in una situazione impegnativa, senza per questo diventare neghittosi, codardi o rinunciatari.

P. N. Teatini
dal numero 1 della pubblicazione H'Q