Tesi non nuova, e soprattutto non solo nostra; va infatti sotto il nome di Ipotesi Whorfiana, ed è stata così concettualizzata per la prima volta da Benjamin Lee Whorf: «(…) il mondo ci si presenta come un flusso di impressioni caleidoscopiche che ha bisogno di venire organizzato dalle nostre menti – vale a dire, in gran parte, dai sistemi linguistici che stanno all’interno delle nostre menti. Noi spezzettiamo la natura, la organizziamo in concetti, e vi attribuiamo i significati che vi attribuiamo, in larga misura perché diamo il nostro consenso ad un accordo generale che ci indica di organizzarci in questo modo – un accordo che viene mantenuto da tutta la nostra comunità linguistica, e che viene codificato nelle nostre strutture di linguaggio.»
Per intenderci, è stato dimostrato che per culture in cui non esiste il termine “arancione”, il colore di una carota o di un caco verrebbe descritto con “rosso”, ovvero lo stesso termine che noi usiamo per fragole o pomodori maturi. Whorf all’inizio esagerava sostenendo che i soggetti dell’esperimento non potessero addirittura percepire la differenza; quello che è emerso poi è che, anche se il dato era chiaramente avvertito a livello biologico, veniva cancellato e non aveva alcun valore a livello di esperienza: il che è forse più grave. Tanto più che il linguaggio è in grado di giocarci tiri ben più mancini che una scarsa gamma cromatica. Valga per tutti un esempio estremo e paradigmatico, che si declina in mille modi nella nostra vita di tutti i giorni: ricordate qual era la mossa escogitata dal Grande Fratello per assicurarsi la purezza ideologica di coloro su cui esercitava la sua dittatura? Purgava il vocabolario di tutti i termini che avrebbero potuto dare corpo a idee non allineate, e quindi sovversive, seguendo l’ormai noto principio: niente parola, niente pensiero.