Scemo chi legge
La lettura dei giornali era un’esperienza perché anche la loro scrittura era un’esperienza.
Non c’era redazione, non c’era gruppo dirigente che non intendesse, facendo il suo giornale, raffigurarsi, uscire allo scoperto, dare all’informazione una forma propria. Ogni giornale - nel linguaggio, nei titoli, nella scelta delle notizie - descriveva soprattutto se stesso, si poneva come piccolo o grande, utile o goffo centro di vita intellettuale. La lettura era considerata una logica conseguenza della scrittura. “Se io scrivo cose che mi interessano, ecco che interesseranno anche i lettori”.

Cosa è cambiato oggi? Ecco cosa è cambiato: nei giornali, soprattutto grazie alla travolgente ascesa delle tecniche di mercato e dei manager editoriali, si parla sempre e solo dei lettori. L’ossessione è “piacere ai lettori”, “fare quello che i lettori chiedono.” Nascono ovunque giornali clonati, e clonati a partire da un vero e proprio fantasma sociologico (il Lettore-Frankenstein costruito nei laboratori del marketing). Nell’ansia di inseguire chi legge, chi scrive si smemora di se stesso: non ha più alcuna esperienza personale, alcuna intima passione da tradurre sulla carta, convinto dal Nuovo Ordine Editoriale che il suo vero compito è cercare di assecondare quell’approssimazione inconsistente (e spesso inesistente) che è il suo “target editoriale”. L’effetto non può che essere rovinoso.

Perché quando il lettore si avvicina all’edicola, non trova più quei giornali parlanti (la prima Repubblica di Scalfari, il Corriere di Piero Ottone, il Giornale di Montanelli, il Manifesto di Pintor e Rossanda…) che lo affascinavano perché si compromettevano, si esponevano, dicevano di sé. Trova giornali mediocri, prudenti, uniformati, così terrorizzati dalla paura di dispiacere a qualcuno che alla fine non piacciono a nessuno. Oppure giornali che si sono “schierati” non a partire dalle idee e dalle parole di chi li fa, ma a partire dalle presunte idee e parole di chi li legge.

Con un effetto di insincerità penosissimo. In ogni forma di comunicazione, a partire da quella amorosa per arrivare a quella artistica, niente è più castrante della insincerità. Ci si può fare in quattro per una persona o per un pubblico, nello sforzo di assecondarli: ma se tu stesso non ne sei convinto, se non ti senti coinvolto, se non hai l’urgenza di comunicare, quella persona o quel pubblico se ne accorgerà presto, e ti abbandonerà.

L’informazione contemporanea è costruita attorno allo studio maniacale del suo destinatario, alla paranoia ossessiva e ruffiana di compiacerlo. Nessuno pensa più al mittente, a colui che scrive, che esprime le parole, che comunica. Al benessere del giornalista, al suo bisogno di scrivere, e di essere messo in condizioni di farlo con serenità e libertà (non dico sindacali, dico culturali). Eppure il lettore non è scemo (il cliente ha sempre ragione, se preferite buttarla sull’aziendale). Si accorge di tutto. Si accorge se menti, se fai finta, se hai riempito il tuo giornale per far piacere a lui o per far piacere a te.

E sa benissimo che se non fai piacere a te, non potrai mai far piacere a lui. Ecco l’assurdo capolavoro che il marketing ha saputo compiere: disgustare il lettore a furia di circuirlo. Cancellare, o quasi, dal prodotto-giornale la sua “sincerità” e la sua autonomia intellettuale.

Togliere dall’informazione quella quota di comune, utile esperienza (prima scritta, poi letta) che le dava senso e valore.

Così nella gerarchia degli incontri, un libro o un film o una relazione umana mantengono quell’appeal che le edicole stanno progressivamente perdendo. Quello che era un piacere è diventato quasi un dovere. E il senso del dovere, quando si parla del proprio tempo libero, non è mai una buona motivazione all’acquisto.

M. Serra
Da la Repubblica