Metaforicamente, essi si raffiguravano la memoria come la voce di una dea, mentre la nostra metafora preferita è stata prima di tutto quella del libro, poi quella della memoria-computer. Sia l’una che l’altra di queste due metafore porta a considerare la memoria come uno strumento passivo dell’ego, che attinge dal cervello ciò di cui ha bisogno, come l’erudito che pesca dagli scaffali della sua biblioteca, o come un programmatore che accede all’informazione contenuta sul dischetto.
Gli psicoterapeuti recalcitrano di fronte alla metafora della memoria-biblioteca e anche a quella del cervello-computer. A partire da Freud, ci si permette di fare “come se” i ricordi potessero essere iscritti in tutto il corpo, in quel braccio che si paralizza e rifiuta di muoversi, in quella schiena che si curva come se fosse schiacciata. Anche gli approcci corporei derivati da Reich o dalla bioenergia di Alexander Lowen funzionano”come se” il ricordo di un dolore sul quale non si è pianto, apparentemente cancellato dalla nostra coscienza, potesse riaffiorare attraverso una manipolazione dei muscoli della gola, la cui contrazione impedisce al pianto di esprimersi. L’immagine di una tristezza che ha sede nei muscoli della gola, o quella di una collera che aspetta la sua ora, rannicchiata nei muscoli della schiena, è estranea all’immaginario del cervello-computer, ma parente di Mnemosine.